La pallavolo in carcere: per vincere al di là del muro
Grazie alla passione di una giovane emiliana oggi è realtà “Mani&Fuori”, la squadra di volley della sezione femminile del carcere “Dozza” di Bologna

«Un giorno in un questionario una delle ragazze alla domanda come ti senti quando sei in campo mi ha risposto letteralmente: ‘na favola. Mi ha spiegato che lei in campo si divertiva e dimenticava in quel momento le difficoltà e i problemi. È questa una delle vittorie più belle».
Valentina Finarelli, 30 anni, emiliana, è una delle allenatrici di “Mani&Fuori”, squadra di pallavolo nata all’interno della sezione femminile del carcere “Dozza” di Bologna. «Nella primavera del 2017 - ricorda Valentina - nell'ambito del mio percorso di studi, in particolare durante la laurea magistrale in criminologia ho svolto l'attività di tirocinio all'interno del “Dozza”. Tra le altre cose che facevo c’era l’assistere ai colloqui». «In questo contesto - aggiunge l'allenatrice - mi ero accorta come per le ragazze, a differenza che per gli uomini, al Dozza non ci fossero proposte di attività sportive».
Una mancanza che Valentina ha cercato di colmare, impegnandosi in prima persona. «La pallavolo era ed è la mia passione - dice - giocavo da più di dieci anni a buon livello così ho proposto di iniziare come volontaria, con due sedute a settimana. Non avevo mai allenato prima». Un’idea che ha suscitato l’interesse delle ragazze, con una quindicina di detenute coinvolte e che ha portato Valentina a chiedere un supporto. «Mi sono rivolta all’Unione italiana sport per tutti (Uisp) - spiega la 31enne - ho parlato con Valentina Angioni, responsabile a Bologna per i progetti sul calcio e ho chiesto se fossero interessati a sostenere la mia idea». «Ci hanno donato il materiale tecnico- aggiunge - abbiamo avuto i palloni e con loro siamo riusciti anche ad avere le divise». Gli inizi sono stati particolari. «Avevo 22 anni ed ero la più piccola di tutte - ricorda Valentina - l’età però non è mai stata un problema. Mi sono sempre sentita rispettata e io ho sempre dato a loro considerazione, anche perché fin dall’inizio abbiamo stabilito delle regole chiare».
Sono rimaste le due sedute alla settimana, il martedì e il sabato, sono aumentate le educatrici sportive («ora siamo tre-quattro persone che stanno in campo, prima se io non potevo esserci saltava l’allenamento» dice Finarelli), sono cambiate le ragazze, tra i 25 e i 55 anni («in carcere a Bologna c’è un ricambio molto alto, perché qualcuno esce o viene trasferito, ma anche perché qualcuno abbandona perché non gli piace o non fa per lei»), ma per Valentina la voglia è la stessa. «Credo che la cosa più bella - spiega- sia la possibilità di portare lo sport che amo e i suoi valori all’interno di un carcere. E poi trasmettere la passione per qualcosa». «Essendo uno sport di squadra - aggiunge l’allenatrice - è fondamentale la collaborazione. A pallavolo non si può giocare da soli. Noi per coltivare questo aspetto, ad esempio durante l’allenamento, nei momenti di gioco abbiamo stabilito che per fare punto sia necessario fare almeno due tocchi prima di lanciarla alla squadra avversaria, altrimenti è punto per gli altri».
Un lavoro lungo, che ha dato soddisfazioni. «Le ragazze mano a mano si aprono - spiega Finarelli - arrivano a raccontarti cose molto personali, anche perché quando ci conosciamo io non chiedo mai niente a loro, se non il loro nome e non vado mai a vedere i loro fascicoli. Loro in ogni caso ti considerano perché gli permetti di fare cose che le fanno stare bene e anche perché in quello spazio si sentono considerate e ascoltate».
Non mancano però le difficoltà. «Al di là degli aspetti burocratici, ad esempio il numero di permessi da richiedere per l’attività e soprattutto per le partite - dice la 30enne - la cosa più complicata è confrontarsi con persone adulte che hanno visioni della vita e dei rapporti diversi e a volte opposti rispetto ai tuoi. Si riesce a costruire un dialogo basato sul rispetto dell’altro e sul parlare chiaro». «In più ci sono le difficoltà pratiche - dice l'allenatrice - noi ci alleniamo solo all'aperto, perché non esiste una palestra nella parte destinata alle ragazze o lo spazio coperto che abbiamo è troppo piccolo e non funzionale per la pallavolo».
Una mancanza di spazi che non consente alla squadra di partecipare a un campionato ma che non ha fermato la voglia di Valentina e delle ragazze di “Mani&Fuori”. «Da marzo fino a ottobre, tempo permettendo - dice Valentina - organizziamo delle amichevoli con squadre locali, cercando quelle di pari livello o di livello simile o con gruppi di volontari che lavorano ad altri progetti nel carcere e che si prestano a giocare con noi». «Facciamo due set con le squadre divise - spiega - poi mischiamo per fare una sorta di terzo tempo. È bello perché consente di conoscere altre persone, di collaborare con loro. Per le ragazze la partita è un momento importante, perché giocano insieme, indossano una maglia e poi perché vedono una porzione di mondo che altrimenti non vedrebbero. Si ca pisce che piace perché spesso anche dopo essere uscite le ragazze mi chiedono le immagini da inviare alle famiglie».
E spesso capita che l’esperienza sotto rete rimanga nel cuore delle ragazze. «Una volta – dice Valentina – mi è capitato di incontrare una delle ragazze che avevo allenato in carcere. Io facevo l’educatrice e stavo facendo giocare i ragazzi della comunità per minori in cui lavoravo. Ho visto questa ragazza giocare con degli amici in un campo da beach volley. Ci siamo riconosciute subito ed è stato bello vedere come lei si ricordasse di cosa facevo esattamente in carcere, nonostante fosse passato qualche anno, e come mi avesse chiesto se l’attività continuava e se c’erano ancora delle compagne che erano state con lei».
Un percorso quello di “Mani&Fuori” che ogni anno ha bisogno di supporto. «Per ogni edizione abbiamo sempre bisogno di finanziamenti e dove possiamo partecipiamo a dei bandi». Il futuro però è tracciato. «Andiamo avanti dal 2017 - conclude - mentre io sto lavorando a un progetto di reinserimento lavorativo delle detenute attraverso la sartoria». Cercando di usare ancora una volta le mani per costruire il proprio futuro.
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