Atp Finals e Davis: per il tennis sarà grande Italia (comunque vada)
di Davide Re
Da Sinner e Musetti a Paolini e il doppio, l’età dell’oro della racchetta ha radici profonde: un cambiamento culturale dovuto anche alla Federazione

Sarà grande Italia, comunque vada. La stagione, infatti, sta finendo, ma la sensazione è che in realtà sia solo l’inizio. Alle Atp Finals, l’Italia è arrivata con ben 4 atleti: il doppio titolare di Davis composto da Simone Bolelli e Andrea Vavassori e due tennisti per la prova di singolare: Jannik Sinner e Lorenzo Musetti. Nelle Finals Wta invece le qualificate sono state due: Jasmine Paolini in singolare e anche in doppio in coppia con Sara Errani. Dopo le Finals resta l’ultima sfida: la Davis Cup (la Billie Jean King Cup le ragazze dell’Italtennis l’hanno già portata a casa a settembre), dove la nostra squadra si giocherà un frammento di gloria (la riconferma del titolo), ma non più la legittimazione. Perché il 2025 ha certificato qualcosa che ormai è evidente: anche se perdessimo tutto, l’Italia del tennis è già una grande Italia e prima potenza mondiale di questo sport.
Non si tratta solo di risultati, ma di una crescita sistemica che ha radici profonde. Lo abbiamo visto nel maschile, nel femminile, nei doppi — persino nel misto, dove i nostri giocatori hanno mostrato una naturalezza e un’intelligenza tattica che anni fa avremmo considerato impossibili, vincendo titoli slam. È cambiata la mentalità. È cambiata la cultura del lavoro. È cambiata la percezione internazionale dell’Italia come nazione tennistica. Anche grazie al lavoro fatto dalla Federazione italiana Tennis e Padel guidata dal presidente Angelo Binaghi. Insomma, oltre il super campione Sinner (numero uno al mondo per 65 settimane consecutive e vincitore quest’anno degli Australian Open e di Wimbledon, oltre che finalista a Parigi e Us Open) c’è un movimento. Una conferma arrivata dallo stesso Jannik, anche per ridimensionare le critiche ricevute per la sua rinuncia a giocare la Coppa Davis. «La cosa che a me personalmente non piace è che abbiamo una squadra incredibile anche senza di me e non ne parla nessuno - ha detto il numero uno azzurro -. Noi dobbiamo rinunciare al numero 26 al mondo, che in questo momento è Darderi, possiamo permettere di non convocare il 26 al mondo in Coppa Davis perché c’è Cobolli, c’è Musetti, ce ne sono tantissimi altri: abbiamo una squadra di doppio incredibile. Possiamo vincere anche così, abbiamo lo stesso Berrettini, e quindi la possibilità di vincere la Davis è alta». «Abbiamo uno squadrone anche senza Jannik Sinner che merita di vincere la Davis - ha aggiunto Binaghi -. Abbiamo Cobolli, Berrettini, Musetti, Bolelli e Vavassori. Una squadra che ha un livello e delle classifiche che poche volte c’è stato nella storia del tennis italiano».
Sinner è il simbolo più evidente di questa trasformazione: non perché vince, ma per come vince. Con disciplina, misura, lucidità, quella compostezza che è ormai diventata modello e metodo. Ma ciò che rende l’Italia grande non è un singolo fenomeno: è la profondità. Dietro ai big citati prima ci sono Arnaldi, Nardi, Zeppieri: una generazione che non gioca per «fare esperienza», ma per competere. Un tennis moderno, fisico, verticale, dove si respira professionalità. E c’è Matteo Berrettini, che ha avuto ancora un anno difficile, pregiudicato dagli infortuni, ma che si è detto pronto per la Davis: non più solo talentuoso battitore dal diritto devastante, ma anche uomo squadra, riferimento emotivo e tecnico per chi viene dopo. In parallelo, il doppio italiano ha vissuto una stagione che definire positiva è limitante: due coppie alle Finals (Atp e Wta), un risultato che fino a pochi anni fa avrebbe sfiorato la fantascienza. Il doppio, categoria spesso trascurata dal nostro movimento, è diventato terreno di eccellenza: disciplina, chimica, visione del campo. Una dimostrazione che il tennis italiano non produce solo individualità, ma sistemi di gioco, culture condivise.
Nel femminile il cammino è stato altrettanto luminoso. Le nostre giocatrici hanno scalato il ranking, vinto partite pesanti, e soprattutto hanno dato la sensazione di aver trovato una direzione chiara. Cocciaretto, Paolini, Bronzetti, Stefanini e Grant: ognuna con una storia diversa, tutte con una consapevolezza nuova. Paolini, in particolare, è diventata un riferimento globale per stile e maturità agonistica: sorriso e coraggio, leggerezza e solidità. Ha vinto al Foro Italico diventando la regina di Roma. Un’icona moderna che non imita nessuno e non si lascia ingabbiare da nulla. Alle loro spalle crescono ragazze pronte a entrare nella top 30 in tempi brevi. Una base larga, finalmente. Una cultura federale che non schiaccia, ma sostiene; non dirige, ma accompagna. Se oggi l’Italia del tennis funziona è perché la Federazione — nel bene, e con rara continuità — ha fatto ciò che altrove si fatica a fare: ha costruito. Centri tecnici, investimenti sui coach, preparazione fisica di alto livello, un modello di sviluppo che non è più “emergenziale” ma strutturale. E i risultati sono arrivati: nei tornei junior, nei challenger, nei grandi palcoscenici, nei tabelloni che contano. Nel doppio femminile c’è ancora l’eterna Errani che nel 2025 ha vinto il Roland Garros in coppia con Paolini mentre nel misto con Andrea Vavassori ha trionfato nello Slam di Parigi e a Us Open.
L’anno in corso porta con sé anche il ritiro di Fabio Fognini, fatto che ha un valore simbolico: si chiude un’epoca. Fognini è stato un campione genio e sregolatezza, un artista capace di toccare vertici lirici e di cadere negli abissi. Nel bene e nel male, è stato il primo a mostrare che un italiano, nella contemporaneità, nel tennis maschile, poteva battere chiunque, ovunque. Con lui finisce il tempo in cui eravamo un movimento fondato sui singoli talenti. Da adesso siamo una nazione tennistica completa, multipla, profonda, coerente. E Sinner, che oggi è la nostra stella, non è un’eccezione: è la punta di una costruzione collettiva. Insomma, la stagione 2025 ci lascia in eredità una certezza: l’Italia non gioca più per sorprendere, ma per competere. Il futuro non è più sperato: è programmato, lavorato, conquistato. A prescindere da come finiranno Davis e Billie Jean King Cup, questa è già la nostra vittoria: aver dimostrato che un sogno non è un caso, ma una cultura; non è un lampo, ma un percorso; non è un’impresa, ma un’identità sportiva che finalmente ci appartiene. E che sembra destinata a durare.
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