Pianoforte, birra e grandi talenti: il nostro viaggio al Concorso Busoni
Il ventenne pianista cinese Yifan Wu ha trionfato a Bolzano, conquistando giuria e pubblico. Un viaggio dietro le quinte di uno dei più importanti premi pianistici internazionali

Dietro le quinte si respirano speranze. Un ultimo sguardo allo spartito, che resta aperto su uno dei praticabili accumulati in un angolo: niente note, sul palco si suona a memoria. Poi un bel respiro. Concentrazione. Occhi chiusi. Si coltivano sogni sulla soglia del proscenio. «Anche se un artista sogna la musica, non sogna la vittoria…». Vittoria che per Yifan Wu arriva. Premio della giuria e Premio del pubblico con un Terzo concerto per pianoforte e orchestra di Ludwig van Beethoven tecnicamente impeccabile, musicalmente in perenne bilico tra tradizione (qualcuno in sala la scambiava per freddezza) e sguardo sul presente – una nota ritardata, un rubato, un portamento… aprono uno squarcio sull’oggi… come non lo sai, ma è così. Mani sul nero lucido del pianoforte dove appoggia il coperchio, prima di ogni attacco. Rito scaramantico, forse, tentativo (necessità) di stabilire un contatto, fisico e spirituale, con lo strumento dove per la prima volta si è seduto quando aveva quattro anni, «in Cina si inizia a suonare sin da giovanissimi e a Shanghai ci sono centinaia di scuole di musica, piene di ragazzi».
È iniziato da lì anche il percorso del ventenne Yifan Wu. Nato a Shanghai, dove si è formato e dove vive ancora. «E dove studio ogni giorno. Perché non si smette mai di imparare», racconta il pianista. Ancora dietro le quinte. Ma a sipario chiuso. La musica è finita. In tasca una busta e un assegno da trentamila euro. Ha aperto gli occhi. Li ha aperti sulla vittoria. «Non l’ho sognata quando mi sono iscritto due anni fa», dice il musicista cinese con ancora in mano il boccale di birra che poco prima ha alzato sul palco del Teatro Comunale, lo Staadtheater. Birra. Perché siamo a Bolzano, la più mitteleuropea (insieme a Trieste) delle città italiane, sguardo architettonico all’Austria, paesaggio dolomitico con il Catinaccio e il Latemar e lo Sciliar che la sera si colorano di rosa – certo, per vederli, devi salire in alto, a Renon, dove l’aria, in questo scorcio finale d’estate, profuma già di azzurro.
Siamo a Bolzano. Concorso pianistico internazionale Ferruccio Busoni. Edizione numero sessantacinque. Partita due anni fa, perché dal 2001 il prestigioso premio ha scadenza biennale. Prima le selezioni video dei 648 musicisti che hanno inviato la domanda di partecipazione. Poi, per centoventi di loro, il Glocal piano project con i candidati che si sono esibiti in pubblico negli showroom della Steinway in tutto il mondo. Da fine agosto la fase finale in presenza a Bolzano, dove in trentaquattro hanno affrontato le semifinali, quasi gironi calcistici tra pagine solistiche e musica da camera. Domenica – con diretta su Rai 5 e su diverse piattaforme streaming in tutto il mondo – la finale, appuntamento che ha chiuso il Bolzano Festival Bozen. Sul palco l’Orchestra Haydn di Trento e Bolzano, la bacchetta solida (e in stile, sempre) di George Pehlivanian. Al pianoforte Sandro Nebieridze, classe 2001, di Tblisi, che si misura con la Rapsodia su un tema di Paganini di Sergej Rachmaninov. Rachmaninov anche per Christos Fountos, classe 1997, cipriota formatosi a Londra (il suo insegnante, italiano, è in platea, lo ha seguito in ogni prova) che (tecnica e interpretazione ci sono, mature, solide) affronta il Concerto n.1 per pianoforte e orchestra in fa diesis minore, forte del Premio speciale musica da camera. Per lui c’è il terzo gradino del podio, per Nebieridze il secondo.
Foto finale sul palco. Un abbraccio con Wu. Vent’anni, ma già idee chiarissime. «Non bisogna avere paura di rompere le regole, non bisogna avere paura di fare errori», dice, convinto di «voler vivere la musica in modo puro. Cosa vorrei suonare? Schumann e Hindemith». Mondi opposti. Schumann lo ha fatto volare nelle finali, con la Sonata n.1. Pagina solistica. «Ma quando salgo sul palco mi devo ricordare che non sono da solo. Perché un musicista è sempre parte di una squadra. E insieme siamo chiamati a fare musica». Quella musica che, racconta ancora il pianista – che grazie alla vittoria sarà seguito per due anni da un management artistico che gli garantirà concerti e promozione – «è l’unico mio pensiero quando salgo sul palco, perché devo rendere giustizia ai compositori che ho sul leggio, restituendo al meglio le note che hanno scritto». Un assegno. Contratti, perché in sala c’erano diversi direttori artistici: Cecilia Balestra, di MilanoMusica, ha assegnato a Yungyung Guo il Premio Maurizio Pollini, prima edizione del riconoscimento per ricordare il pianista milanese scomparso lo scorso anno. «Come immagino la mia vita dopo la vittoria al Busoni? Non la immagino, la vivo», dice concreto Wu.
Perché quello dei concorsi rischia di essere un mondo a parte, fatto di “professionisti” che passano da una competizione all’altra. Ci sono i vari Chopin di Varsavia, Cajkovskij di Mosca, Paganini di Genova… Parma, sempre domenica ha celebrato la dodicesima edizione della Toscanini competition per direttori d’orchestra, premiando il venticinquenne russo di San Pietroburgo Stepan Armasar. «Sappiamo che ci sono trappole, meccanismi non chiari nei concorsi. Il Busoni da sessantacinque edizioni mette in campo una serietà riconosciuta a livello internazionale», dice il direttore artistico della manifestazione, Peter Paul Kainrath. Molti gli anni in cui il primo premio del Busoni non è stato assegnato. Alla prima edizione del 1949 Afred Brendel si classificò quarto, così come quarto fu Bruno Canino nel 1956 e nel 1958, in mezzo - nel 1957 - il primo premio a Martha Argerich nell’albo d’oro insieme a Louis Lortie, Lilja Zilberstein e Alexander Romanovsky.
«Quello che conta per un musicista non è collezionare premi, ma poter trovare nei concorsi una connessione con il mondo del lavoro», dice ancora Kainrath che come presidente della giuria della sessantacinquesima edizione ha voluto il regista britannico David Pountney. «Scelta insolita», ammette. Con Pountney, a valutare i pianisti giunti alle fasi finali del Busoni, musicisti da tutto il mondo. «Abbiamo ascoltato ragazzi con personalità artistiche diversissime, tutti con un livello tecnico molto alto. Ma non abbiamo dato i voti, come a scuola. Perché di fronte avevamo colleghi», racconta Lucas Debargue, pianista geniale, francese, pressoché autodidatta, rivelazione del Cajkovskij 2015; non lo ha vinto, ma il suo Ravel ha lasciato il segno e gli ha aperto molte porte. «Un concorso, lo dico avendone fatti, è una vetrina, un modo per mostrare la nostra arte. Getti un seme che poi germoglierà», dice. «Un premio vale non come una medaglia, ma ti apre le porte per un dopo», osserva Mariangela Vacatello, campana, formazione a Imola, anche lei in giuria. «Partecipare a un concorso come il Busoni è come andare alle Olimpiadi, ci può essere fortuna, ma occorre arrivare preparati, allenati. Servono, come in tutto, serietà e disciplina».
Sul palco si spengono le luci. La foto del vincitore fa già il giro dei social. Like e commenti. Non tutti positivi. «Vedi, i social non aiutano. Tutto sembra bello. E per un giovane musicista è difficile capire a chi affidarsi, è difficile trovare un criterio di discernimento», riflette Mariangela Vacatello. Ma è una sfida da raccogliere. Tra sogni e speranze.
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