Il cinema racconta le donne in Tunisia: sparire per salvarsi
Il regista Mehdi Barsaoui al cinema con “Una sconosciuta a Tunisi”: «Parto dal privato per raccontare il politico. il futuro della Tunisia è femminile»

Non di rado il cinema ricorre a fatti di cronaca per allargare lo sguardo a un’intera società, osservandone fratture, vulnerabilità, contraddizioni che finiscono per avere pesanti conseguenze sulla vita delle persone. Racconta una storia realmente accaduta dopo la “rivoluzione dei gelsomini” del 2011 il film di Mehdi Barsaoui, Una sconosciuta a Tunisi, in cui Aya, una trentenne che vive ancora con i genitori a Tozeur, nel sud della Tunisia, sopravvive a un incidente stradale mentre viaggia per raggiungere un hotel per turisti in cui lavora come cameriera. Tutti la credono morta e lei ne approfitta per fuggire nella capitale, per dimenticare il passato e iniziare una nuova vita, finalmente invisibile e dunque libera. Ma mentre lotta per costruirsi una diversa esistenza con una diversa identità, assiste a un abuso della polizia e rischia di essere scoperta. In concorso nella sezione “Orizzonti” dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia e poi al Biografilm di Bologna, il film, nelle nostre sale il 24 luglio con Ia Wonder Pictures, mette in luce i problemi della nuova Tunisia, finalmente libera dalla dittatura di Ben Ali, ma ancora schiacciata dalla corruzione, dall’oppressione, dalla mediocrità della classe politica e dirigente, e da un violento patriarcato che continua a colpire le donne in cerca di emancipazione. Nella città, dov’ è approdata per garantirsi libertà e rispetto, la donna finisce infatti per ritrovar i medesimi schemi della sua vita precedente, perché lo sguardo degli altri su di lei è rimasto lo stesso e solo un’autentica presa di coscienza le darà la forza necessaria a ribellarsi al vecchio e guardare al futuro. Una storia che, almeno nel suo incipit, rimanda a Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello, ma il regista, padre tunisino e madre siciliana, che ha esordito alla regia nel 2019 con il dramma famigliare Un figlio, commenta: «Conosco bene quel romanzo, ma Pirandello non c’entra con il film, profondamente radicato nella società tunisina. Quando ho letto la storia di questa ragazza che si finge morta per capire quanto sia amata, non pensavo sarebbe stata al centro del mio secondo lungometraggio finché mia moglie e io non abbiamo scoperto di essere in attesa di una bambina. Ho iniziato allora a chiedermi: e se mia figlia un giorno facesse la stessa cosa? È iniziato così nella mia mente il percorso di Aya, che alla fine diventa Aïsha, che in arabo vuol dire “viva”. Aïsha è molto coraggiosa, io non riuscirei mai a fare una scelta così radicale, ma il cinema è bello anche perché possiamo chiedere ai personaggi di osare quello che noi non faremmo mai». Anche il precedente film del regista parte da una crisi personale per raccontare il Paese e le sue zone d’ombra. «Quando vivevamo sotto una dittatura piuttosto feroce, era difficile esprimere il dissenso. Ci siamo liberati di tutto questo e sono convinto di vivere finalmente in una democrazia, ma il percorso è caotico e complicato. Mi piace partire dal privato per raccontare il politico e Una sconosciuta a Tunisi parla molto dello stato attuale del mio Paese, ma ho fiducia nel futuro della mia terra, anche se i tunisini non credono più nella politica. Qualcosa si è rotto, ma io voglio rimanere ottimista. Nel film c’è un lieto fine, la giustizia trionfa, ma a quale prezzo?». Nonostante tanti cambiamenti abbiamo trasformato il volto della Tunisia, quel sistema di controllo sociale chiamato patriarcato resta ben saldo e un nome diverso sulla carta di identità non basta a garantire la libertà e l’emancipazione delle donne. «Il film è una radiografia dei rapporti tra uomini e donne e tra genitori e figli in Tunisia – continua il regista – e sono convinto che il futuro sia femminile. Per questo racconto il percorso di crescita di una donna che decide di liberarsi di tutto, anche del senso di colpa verso il padre e la madre. Nel mio Paese è come se la nostra vita non ci appartenesse davvero: dobbiamo tutto ai nostri genitori ai quali siamo legati da doveri che non ci lasciano liberi. Inizialmente non riuscivo a mettere a fuoco la vera ragione che mi spingeva a realizzare questo film, poi ho nuovamente legato questa storia a mia figlia, che vorrei vivesse in una società più giusta, libera, dove una donna può essere chi vuole». Nei panni della protagonista c’è Fatma Sfar che vediamo mutare sullo schermo in sintonia con le diverse identità del suo personaggio. «Durante le settimane di preparazione del film abbiamo parlato molto apertamente. Credo nel dialogo tra registi e attori e tendo a dare loro spazio, ma non durante le riprese, quando le cose devono andare dritte. Fatma, che viene dal teatro, è un’attrice di grande serietà, intelligenza e sensibilità».
© RIPRODUZIONE RISERVATA






