Dieci anni dopo Netflix: è stata vera rivoluzione?
A dieci anni dall’avvento della più rivoluzionaria piattaforma di contenuti on demand, nessun “grande iPad” ha ancora scalzato il televisore. A vincere è il mix

Il 22 ottobre del 2015, giusto a metà della seconda decade del nuovo millennio, è un mercoledì come tanti: al governo il “rottamatore” Matteo Renzi è alle prese con la sua riforma costituzionale, quella che s’infrangerà sul no referendario un anno più tardi. L’Expo milanese si conclude con successo a fine mese, gli studenti sono in piazza, non solo a Milano, come spesso accade d’autunno, e al Mediolanum Forum si fanno i preparativi per gli MTV Europe Music Award, l’evento del cuore dei giovani diventati adulti della “generazione x”. In televisione c’è il Grande Fratello che, alla sua quattordicesima edizione, sembra aver ormai perso del tutto la forza dirompente con cui è comparso come dinamite sullo scenario mediale quindici anni prima, con tutte le polemiche che ha generato.
Un anno di mezzo, dunque, un anno di transizione per un’Italia che pare sospesa fra la voglia di novità e di futuro – un desiderio che sembra farsi concreto fra le vie di una Milano galvanizzata da Expo – e le molte resistenze che finiscono spesso per far apparire il Paese come eternamente immobile, bloccato, incapace di cambiare. Da ascriversi senz’altro al capitolo delle innovazioni, nella notte di quel mercoledì come tanti si apre, nel mare magnum della rete Internet, lo scrigno magico di un servizio che viene dall’America, ma che è già sbarcato in tanti altri Paesi, dal Canada al Regno Unito. Uno scrigno marchiato da una grande “N” rossa su sfondo nero, che pare una pellicola cinematografica che scorre e che sta diventando l’icona universale dello streaming.
L’arrivo di Netflix in Italia, nell’ottobre del 2015, è accompagnato dai tamburi della rivoluzione. Su Wired Italia, la rivista che innalza anche alla periferia dell’impero la bandiera della tech-revolution californiana, il patron di Netflix, Reed Hastings, si presenta come un rassicurante impiegato dell’entertainment in giacca e cravatta che porta con sé un messaggio di rottura, di disruption: «Questo signore spegnerà per sempre la vecchia TV». La promessa sembra davvero di quelle dirompenti: gli schermi della TV sono pieni delle solite ricette stagnanti che, anche se hanno solo quindici anni, come il Grande Fratello, appaiono già datate, vecchie. Annuncia Hastings, come un vate: «Per cinquant’anni abbiamo avuto la tv lineare, ma ogni cosa ha il suo tempo e prima o poi viene sostituita: la tv del futuro sarà un grande iPad». Un messaggio forte per lo spettatore italiano che, quella settimana, si muove fra i talk politici di prima e seconda serata (l’eterno Bruno Vespa, ancora lì dieci anni dopo), Chi l’ha visto? e le fiction di Rai1.
Ma non è certo solo questione di contenuti. La promessa di Hastings, che si concretizza in quell’immagine di un “grande iPad” nelle mani degli italiani, sottende la novità più rilevante che Netflix porta con sé come un vessillo: la Tv via Internet è finalmente interattiva, consente cioè la fuga dalla rigidità e dalla “linearità” del palinsesto, la forma con cui la televisione è vissuta da sessant’anni a questa parte. Basta “appuntamenti” serali col programma del prime time, basta “signori e signore buonasera”, la Tv prende ora la forma di chi la guarda. È “anytime”, sempre disponibile, è “anywhere”, fruibile su uno smartphone o un tablet connesso in rete, promette di liberare dalla schiavitù degli orari: il “binge watching”, l’abbuffata audiovisiva, consente di consumare ore e ore di serialità, una via l’altra.
Facciamo un balzo in avanti, all’oggi: cosa è rimasto, a dieci anni di distanza, di quelle promesse così ambiziose? Si è giovani facendo la rivoluzione e si matura integrandosi al sistema, ed è quello che è accaduto a Netflix e, più in generale, ai servizi di streaming, in questo decennio. Oggi Netflix ha conquistato in Italia quasi cinque milioni e mezzo di abbonati. Non ha sostituito il vecchio televisore con un “grande iPad”; piuttosto si è ricavato uno spazio proprio sul teleschermo principale nelle case degli italiani. I servizi di streaming hanno accompagnato una trasformazione antropologica, più che semplicemente tecnologica, dello spettatore.
Oggi lo spettatore medio – nei limiti di questa astrazione che mette fra parentesi differenze d’età, generazione, interessi – è generalmente ben consapevole di accedere, dal proprio salotto, a un’offerta di contenuti audiovisivi sempre più larga e diversificata, fatta di programmi di intrattenimento, news, fiction, film, documentari e molto altro ancora. Nonostante ciò, almeno otto volte su dieci, continua ad affidarsi a ciò che gli offrono le reti televisive coi loro palinsesti. In questi giorni, per esempio, oltre dieci milioni di italiani si dividono, tutte le sere, fra i pacchi di Stefano De Martino e la ruota di Gerry Scotti, a dimostrazione della capacità di coesione e ritualità della Tv generalista.
La fatica della scelta entro i cataloghi molto estesi dei servizi di streaming finisce per essere superata grazie all’accensione di titoli che superano il rumore di un’offerta così abbondante, con la complicità del passaparola (aver visto la serie del momento è spesso patente di cittadinanza nei discorsi fra amici, compagni di scuola o colleghi radunati alla macchinetta del caffè) e il supporto decisivo degli algoritmi di raccomandazione, il più potente generatore di scelte nell’epoca dei social media.
Ed ecco che la forza di Netflix in questi dieci anni è stata proprio quella dei suoi titoli, dei contenuti che ha proposto ai suoi oltre 300 milioni di abbonati nel mondo. Alcuni di questi sono diventati brand globali: da House of Cards a La casa di carta, da Stranger Things a Squid Game, da Mercoledì a Bridgerton, The Crown e Adolescence. Il “modello Netflix” si regge proprio sulla globalità delle sue produzioni: la società di Los Gatos (California) investe quasi otto miliardi di dollari in contenuti originali e esclusivi (e, secondo le stime, altrettanto per licenze e diritti, ovvero programmi acquisti da altri editori, come Mare Fuori o Blanca nel caso italiano). Anche se i contenuti più popolari e visti sono generalmente di origine americana, la piattaforma porta in tutto il mondo, con sottotitoli o doppiaggio, storie “locali”, sviluppate in cinquanta Paesi e altrettante lingue. Sono contenuti che talvolta esondano dalla piattaforma generando un “Netflix effect”: spettatori di tutto il mondo sono impazziti per le canzoncine e i biscotti di Squid Game, Bella ciao (ma anche Ti amo di Umberto Tozzi) sono diventate hit globali grazie a La casa di carta, i profili social dei cast (come quello di Fabbricanti di lacrime) esplodono di like.
E la Netflix italiana come si è evoluta in questi dieci anni? Anche nel nostro Paese i titoli originali rappresentano una delle ragioni della crescita del servizio. Sul catalogo italiano funzionano certamente le storie che confermano la globalizzazione dei gusti, la comedy-horror che rilancia la Famiglia Addams fra le generazioni zeta e alfa, la nostalgia per gli anni Ottanta di Stranger Things o le mode coreane, ma Netflix conquista visibilità nel Paese anche raccontando San Patrignano (SanPa), la prostituzione minorile ai Parioli (Baby), gli adolescenti inquieti di Skam Italia e Tutto chiede salvezza. L’integrazione nel sistema produttivo nazionale di film, serie e documentari ha tappe fondamentali nell’arrivo a Netflix di Eleonora Andreatta, per venticinque anni responsabile della Fiction Rai, e nell’apertura della sede italiana dell’azienda, a Roma, il 9 maggio 2022. L’arrivo di Andreatta coincide con una ridefinizione dell’offerta originale che si orienta tanto verso un “nuovo generalismo” – con titoli molto “larghi” e popolari come Inganno, con Monica Guerritore, o film come Il mio nome è vendetta, con Alessandro Gassmann – ma anche una diversificazione del catalogo fra teen drama, esperimenti “d’autore” (l’animazione per adulti di Zerocalcare) e kolossal ad alto budget (Il Gattopardo).
Sbarcato con l’intento di cannibalizzare o sostituire la Tv, Netflix finisce oggi per rappresentare un consumo complementare che si affianca alla televisione generalista, puntando sempre più a generare occasioni di covisione nelle famiglie italiane, per allargare progressivamente il suo pubblico. Dopo aver introdotto un abbonamento light, meno costoso, grazie all’introduzione della pubblicità nel 2022, e dopo essere diventato un cardine per il tessuto produttivo nazionale con 15/20 titoli originali realizzati all’anno in Italia, fra serie, film, documentari e programmi di intrattenimento, ora Netflix – come altri servizi di streaming – guarda allo sport live come contenuto in grado di estendere ulteriormente la propria audience. Si apre su questa sfida il secondo decennio di vita del brand con dalla “N” rossa che compare sull’inconfondibile jingle “tu-dum”.
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