A Venezia irrompono la vicenda Tortora e l'invidia italiana
"Portobello", la serie di Marco Bellocchio, fuori concorso con le prime due puntate. Il regista: perché di fronte a una persona così celebre e amata c'è stato un Paese pronto a sbranare?

La storia di un clamoroso errore giudiziario, ma anche di un’Italia che stava cambiando dopo l’assassinio Moro, la fine del terrorismo, la crisi dei grandi partiti, l’avvento delle prime televisioni provate, il tramonto delle grandi utopie. Portobello, l’attesissima serie realizzata da Marco Bellocchio sullo spinoso caso Tortora, ha visto finalmente la luce con le prime due puntate, presentate fuori concorso alla Mostra dei Cinema di Venezia. Prima serie HBO original, 6 episodi di un’ora ciascuno in streaming su HBO Max entro marzo 2026, scritto dal regista con Stefano Bises, Giordana Mari e Peppe Fiore, Portobello vede Fabrizio Gifuni nei panni del celebre conduttore tv che con il suo rassicurante mercatino del venerdì e con il suo pappagallo che si rifiutava di parlare raccolse fino a 28 milioni di spettatori in prima serata.
All’apice del successo viene accusato di essere un camorrista e un trafficante di droga da Giovanni Pandico (interpretato da Lino Musella), uomo di fiducia del boss Raffaele Cutolo, spettatore assiduo del programma dalla sua cella. Quando decide di pentirsi, interrogato dai giudici, il malavitoso fa un nome che nessuno si sarebbe mai aspettato: Enzo Tortora. E così il 17 giugno 1983 i carabinieri bussano alla porta d’albergo del conduttore, dando il via a un’odissea dalle tragiche conseguenze. Nel cast anche Barbora Bobulova nei panni di Anna Tortora, sorella di Enzo, e Romana Maggiora Vergano in quelli della compagna, Francesca Scopelliti. Ed è proprio dal libro di quest’ultima, che raccoglie le lettere a lei scritte da Tortora in carcere, che tutto è cominciato.

«Ero rimasto molto colpito da queste lettere – racconta Bellocchio – tanto che avevo chiamato la Scopelliti per dirglielo. In quegli anni noi intellettuali di sinistra guardavamo a Tortora con un certo distacco, io avevo altri interessi e non trascorrevo certo il venerdì sera a vedere Portobello. Conoscevo Tortora però già da Campanile sera, che vedevo in un bar di Bobbio. Alcuni dettagli da lui raccontati nelle sue lettera hanno suscitato in me un interesse per un personaggio che mi era sostanzialmente estraneo. Quando però il 17 giugno 1983 tutte le televisioni mostrarono quest’uomo ammanettato che usciva dalla caserma tra gli insulti, mi stupì il suo stupore. La sua battaglia per dimostrare la propria innocenza ha a che fare con quella per un’identità nuova. Prima era il grande presentatore, il quarto moschettiere con Baudo, Buongiorno e Corrado, poi diventa un’altra persona. Era necessario raccontare in parallelo la fortuna e le vicende private di Tortora e quelle del camorrista, Giovanni Pandico, che si pente perché abbandonato da Cutolo e che odia Tortora senza conoscerlo, convinto di avere con lui un rapporto quasi telepatico».
Le prime due puntate infatti si interrompono dopo l’arresto di Tortora, prima dell’inizio della lunga e dolorosa battaglia legale, e ciò a cui il pubblico della Mostra ha assistito è la rievocazione della scalata al successo del conduttore, dell’ossessione di Pandico per l’uomo del mercatino e di un pubblico italiano che comincia a cambiare faccia. «La vicenda di Tortora che ha segnato la Storia del nostro Paese lasciando una ferita enorme, ha consentito di aggiornare il codice di procedura penale tanto che oggi una cosa del genere non potrebbe più accadere - dice ancora il regista -. A ben guardare le prime quattro righe de Il processo di Kafka racchiudono perfettamente la vicenda di Tortora. La casualità gioca un ruolo fondamentale in questa vicenda, però ci vuole molto tempo per ricostruire le tracce di quello che è accaduto in quel momento. Com’è possibile che di fronte a una persona così celebre e amata che subisce un inciampo ci sia un Paese pronto a saltargli alla gola non vedendo l’ora di sbranarlo? Questo interrogativo apre tante questioni importanti e universali: è l’invidia per il successo? Un istinto barbaro per cui ognuno di noi conserva dentro di sé la speranza di veder cadere una persona famosa e potente?
Oppure c’è dell’altro? Cercando di rispondere a queste domande abbiamo scoperto quanto questo personaggio fosse libero, controcorrente, ispido nei suoi giudizi, uscito da sette anni di esilio a cui è stato condannato perché si è permesso di sostenere che la tv pubblica fosse un baraccone, un jet guidato da un gruppo di dissennati. Si era battuto per la liberalizzazione delle emittenti private, aveva criticato aspramente colleghi e politici in relazione alla faccenda della P2. Cose che forse spiegano perché molti avessero dei conti in sospeso con lui. Si tratta dunque di una storia complessa, universale, po-litica, misteriosa e italiana».
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