venerdì 16 maggio 2025
Il cardinale il cantante a confronto su dolori personali e sulle guerre di oggi. Il presidente Cei: «Si parla di riarmo, una follia». E Zuppi ricorda le baracche nella Roma anni '60
Da sinistra: il cardinale Matteo Zuppi, il giornalista Gigio Rancilio e il cantante Luciano Ligabue

Da sinistra: il cardinale Matteo Zuppi, il giornalista Gigio Rancilio e il cantante Luciano Ligabue - ANSA

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«Per stare nella storia, quella con la S maiuscola, bisogna ascoltare tante storie e capire quanto sia importante passare dall’io al noi». Ieri al Salone del Libro è partito da qui, da una riflessione del giornalista Gigio Rancilio, il dialogo tra due figure lontane ma vicine: da una parte Luciano Ligabue, cantautore, scrittore, regista, e dall’altra il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale Italiana. A unirli una comune visione, ovvero l’importanza di raccontare, condividere storie, e dare un senso – attraverso queste – alla possibilità di costruire una comunità oltre ogni preconcetto. Questo perché le storie possono salvare e non solo: «Da piccoli ci dicevano “non raccontare storie”, come fosse qualcosa di negativo – ricorda Rancilio – poi le storie le abbiamo incontrate nei libri, nei film, nelle canzoni. E abbiamo capito che le storie ci aiutano a vivere». E questo Ligabue lo sa bene, come racconta: «Anzitutto devo dire che cantare ha un peso diverso dal parlare. Può essere più leggero – richiamando il tema del Salone di quest’anno – ma anche più profondo». Zuppi a questo proposito dice che raccontare, per lui, è una forma di dono, ma fa un ulteriore passaggio: «Musica e parole insieme superano ciò che non si sa dire. Questo crea una circolarità che va oltre l’io e verso il noi, ed è lì che l’io trova benessere nel noi, perché “mettere in circolo” - come diceva una canzone di Ligabue -, donare e condividere fa sempre bene». Intimo, nel corso del dialogo, il momento in cui Rancilio mette Zuppi e Ligabue a confronto con il dolore che rivela. Con il cantautore si parte dalla biografia Una storia, (Mondadori, 2022) e dal racconto della perdita di un figlio: «Ho rielaborato quella vicenda in pandemia, quando non si poteva pensare al futuro, ed il presente era un limbo. Ho guardato indietro e ho cercato di fare chiarezza nelle emozioni. È stato uno svelamento di me stesso». Zuppi a sua volta cita due grandi dolori, la perdita del padre e quella di una coetanea da giovane, perché «la morte di un coetaneo – spiega – è assurda, confonde, svela la fragilità. Tuttavia – aggiunge – come si fa non provare dolore, per esempio, anche per i morti nella Striscia di Gaza?». La domanda stimola un’ulteriore riflessione sulla fede e la responsabilità: «La fede – dice Zuppi – non è un’idea astratta, ma qualcosa che tocca la vita», proprio come la pace: «La guerra – continua il cardinale – è la più grande paura. Dopo l’orrore del Novecento, l’Europa è riuscita a unirsi. Oggi si parla di riarmo, si tracciano confini. È una follia. Il sovranismo non ha futuro. Chi ama il proprio Paese, costruisce ponti, non muri».

l tema della pace è ricorrente anche in Ligabue, che nel 2000 ha scritto con Pelù e Jovanotti “Il mio nome è mai più”: «Oggi – dice il cantautore ricordando quel pezzo – credo le canzoni facciano più fatica ad arrivare e hanno vita più breve di una canzone come quella che è rimasta nel tempo. Forse perché c’è troppa produzione e competizione. Temo che tutto questo stia superando il bisogno di dire qualcosa, di lasciare una traccia. Quando ho iniziato guardavo a Guccini e De André, che non erano tanto concentrati sul cantare ma su quello che cantavano, perché cantare era una conseguenza dello scrivere. Mi sono sempre detto che era quello, ovvero il bisogno di dire qualcosa, quello che avrei voluto fare». A chiudere il dialogo è Zuppi, che risponde a due domande, sulle storie e sul loro valore: «Da ragazzo – racconta – sono stato segnato da una cosa: andare nella Roma degli anni ‘60 dove c’erano le baracche. Quello mi ha segnato, perché è stato come entrare in un mondo che non conoscevo, capire cos’è davvero la vita, scoprire cose che non conoscevo». Rancilio a quel punto lo incalza sulla Bibbia, domandando se si può affrontare “solo” come una storia: «Quando si parla di storie non si parla di qualcosa di astratto. Quello che mi attrae – spiega il cardinale – è lo spirituale che si rivela ed entra nell’umano, che aiuta a capire quello che altrimenti non sapremmo riconoscere o vedere. Come si dice ne Il piccolo principe, l’essenziale che è invisibile agli occhi, ma che fa capire il visibile. Il bello – conclude – è che quella storia - la Bibbia - non è una storia solo di molti anni fa, ma una storia che continua nelle nostre storie ancora oggi».

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