venerdì 21 dicembre 2018
Una mostra a Milano sulle Vesperbild, le Pietà nordiche che hanno ispirato Michelangelo, consente di riflettere su come gli artisti hanno intuito la partecipazione di Maria alla redenzione
La Madonna nella Vesperbild eseguita nella Cerchia del Maestro di Rimini (1430 c.)

La Madonna nella Vesperbild eseguita nella Cerchia del Maestro di Rimini (1430 c.)

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Quasi quarant’anni fa, Hans Belting, in un saggio intitolato L’arte e il suo pubblico, parlando dell’Imago pietatis scrisse che «la vista di un morto che normalmente provoca distacco più che vicinanza, è resa sopportabile dalla coscienza che Egli in realtà è vivo ». L’Imago pietatis inizialmente mostra l’Uomo dei dolori, il suo busto con le ferite al costato e alle mani, i fori della corona di spine, secondo l’iconografia bizantina e poi gregoriana. Se n’era occupato nel 1927 Erwin Panofsky con un saggio specifico e tornò a parlare del rapporto fra dolore e devozione ventisei anni dopo, nel 1953, con uno studio alla pittura olandese. Il saggio di Panofsky aveva questo sottotitolo: «Un contributo alla storia tipologica dell’Uomo dei dolori e di Maria Mediatrix » ( “tipologica” risente della dipendenza di Panofsky dalla lezione formalista di Wölfflin, ma più rilevante è che il saggio metta in relazione il Cristo dei dolori con la figura della Vergine). Panofsky premise anche che l’Imago pietatis nella forma gregoriana primitiva differiva da quella, da lui presa in esame, di un dipinto conservato in Casa Horne a Firenze, «dipinto duecentesco poco appariscente, finora passato inosservato», in cui coglieva un cambio di passo nello schema iconografico, per la «presenza di Maria». Questa osservazione è importante e segnala il passaggio storico dall’“Uomo dei dolori”, Vir dolorum, all’Andachtsbild (figura devozionale), che presto matura nella forma nordica della Pietà.

Il dipinto di Casa Horne – osserva Panofsky – mantiene ancora «il suo fulcro nella figura del Redentore sacrificato, cui viene aggiunta solo ex post la figura di Maria». E aggiunge: «In seguito, anche in Italia, dove si arrivò a una accentuazione del pianto di Maria, si scelse quasi regolarmente la forma pregnante della Pietà nordica». È su questo che si misura la mostra Vesperbild , a cura di Antonio Mazzotta e Claudio Salsi, allestita al Castello Sforzesco di Milano da qualche settimana. Tre stanze, ventiquattro opere fra dipinti, sculture e opere grafiche, che ci guidano a scoprire «le origini delle Pietà di Michelangelo». Se si avesse sotto gli occhi il dipinto Horne di cui parlò Panofsky, con la madre che da sinistra abbraccia il figlio e avvicinandosi, testa a testa, sembra quasi baciarlo, sarebbe più evidente come il tema duplice, Uomo dei dolori/ Vesperbild, informi tutta la ricerca michelangiolesca sulla Pietà. Il dipinto Horne, la cui tipologia ritornerà spesso nella pittura rinascimentale italiana (in Giovanni Bellini, per esempio) come nuova forma pietatis, era forse nella mente di Michelangelo quando lavorava alla Pietà “non finita” (ritrovata durante gli scavi ottocenteschi nel giardino dei Rondinini) che raffigura la madre mentre abbraccia il Cristo e sembra reggerne il peso nella morte?

La Vesperbild più classica, nata nei Paesi nordici d’Europa, mostra la Madre che sorregge il figlio morto sulle sue ginocchia e in grembo, come lo stesso Michelangelo farà nella sua prima Pietà per San Pietro. L’unione sacrificale fra il Cristo e la Vergine nel Nord Europa si condensa in questa forma, mentre è più raro il busto dell’Uomo dei dolori consolato dalla madre. Già uno studioso di grande levatura come Émile Mâle nel 1908 si era interrogato sulla diffusione di questa e altre formae pietatis legate all’Uomo dei dolori e si era risposto che dipendeva dal desiderio del fedele di «associarsi alla passione di Cristo». Ci stiamo avvicinando alla Devotio moderna, dove preghiera ed empatia s’intrecciano. In realtà, c’è molto di più.

Intanto si deve osservare che a partire dal XV secolo predomina, soprattutto nelle sculture, un forte realismo nell’espressione della Passione di Cristo, cui corrisponde una più trattenuta fisiognomica del dolore della Madonna. Questo emerge dall’accentuazione drammatica dei segni della sofferenza sul corpo del Cristo, per esempio nella Vesperbild lignea di scultore tedesco di fine Trecento proveniente da Francoforte, che mostra invece nel volto della Vergine, nel suo modo di guardare il figlio morto, un silenzio umile, un tacet che sposta il fuoco dentro il corpo, nel grembo stesso della madre, quasi a inverare le parole di Rabano Mauro nell’VIII secolo a proposito del corpo umano che «viscera mystice significant affectum pietatis et misericordiae». Ciò che emerge in quella scultura, come nelle altre Vesperbild di area tedesca e boema, in pietra e terracotta, così anche nella più arcaica del Maestro di Rimini su alabastro databile attorno al 1430 o in quella lignea del Vecchietta di qualche lustro più tarda, col plastico inarcarsi del corpo del Cristo e il bellissimo gesto della mano cadente che “tocca terra”, e ancora nell’altrettanto bello schema formale nella Pietà del Carpaccio (di collezione privata) in cui la testa del Cristo con la lunga criniera di capelli rossi che cadono sulla verticale ha qualcosa di arcano e modernissimo; ecco, ciò che emerge da queste immagini di devozione è un realismo inedito. Un «realismo sacramentale», lo definì Belting, che nell’Imago pietatis evocava il paradosso di un Redentore apparentemente morto ma in realtà vivo nei misteriosi recessi della sua carne: «Nel corpo sacrificato il Salvatore vivo creò le premesse al realismo dell’immagine ».

Ma dopo aver considerato i legami più o meno espliciti fra Imago pietatis e Vesperbild, si deve notare che la loro relazione sussiste proprio nella crescita d’importanza del grembo materno fino a essere il locus nel quale l’immagine del Cristo morto trova il suo compianto e il suo sepolcro. In tal senso, la copia in gesso della Pietà di San Pietro esposta a Milano ci presenta la madre giovanissima, di età minore a quella del Cristo morto che sostiene e il cui marmo originale ha la lattea e diafana luminosità di una crisalide, tutta racchiusa nel silenzio. Ci appare imponente e spaziosa nel gesto che allarga la veste per accogliere il corpo del figlio come dentro un sudario-placenta (il verso dantesco «figlia del tuo Figlio» e molte pagine della Patristica sulla sposa del Cantico sono rivelate nella scultura).

Se e accorse, con la sensibilità di donna e di poeta, Vittoria Colonna quando compose il Pianto della Marchesa di Pescara sopra la Passione di Christo, che possiamo definire, senza incertezze, una Passio materna. La figura della madre che regge il figlio morto sulle ginocchia nelle Vesperbild (immagine del vespro), in realtà ha un archetipo nella scultura di ambito sardo dell’età del bronzo, nota come Madre col guerriero morto. Ma Vittoria ci presenta una visione nuova e radicale: il Venerdì Santo della Madre. Leggendo avvertiamo il conato, il sofferto tentativo della madre di rianimare suo figlio (ciò che già per san Bonaventua rendeva Maria corredentrice): «Uscì per li occhi con più amare lacrime, et per la bocca con più accesi suspiri: onde el lavò et riscaldò de modo che parea veramente vivo». La sua giovinezza – esaltata da Michelangelo a immagine del verso di Dante –, la rende capace di questa redenzione partecipe nel sacrificio del figlio che ha generato e che ora culla e abbraccia come volesse trasmettergli il fluxus che lo rianimerà dal gelo della morte. È, dunque, una madre giovane, piena della fecondità necessaria all’eroica rianimazione, quella che Vittoria esprime con prosa drammatica.

Che a suo modo illumina il Cantico quando chiama la Sposa «nigra sed formosa». Nera ma bella. La sua nerezza è l’oscurità di un piano divino che la vuole madre e poi la spinge al gesto sacrificale della prefica che non recita un rito funebre anzi si spinge fin sulla soglia dove la morte tenta la nostra speranza. Ma il volto sereno di Cristo nella morte la rassicura nel suo partecipare alla redenzione: «La bruttezza de la morte era non solo bella nel bellissimo volto ma la fierezza si convertì in dolcezza grande, la oscurità in chiara luce, et quella paurosa nigrinide che par che offenda gli occhi de chi la guarda, essendo in quella purità di Christo fatta candida et bella, dava piacevol securtà a chi ’l guardava». Così la Marchesa di Pescara vede il volto di Cristo e ne riflette la stoica obbedienza nel volto della madre che «rimirava la Reverenda testa perforata esser el riccho vaso ove tutta la sapientia divina et humana era raccolta, gli occhi serrati che eran el sol de la Justizia et de la misericordia, el ciglio basso al cui cenno treman gli Angeli».

La Vesperbild svela il travaglio materno vissuto già “incubando” il seme della redenzione. Così, talvolta, nelle “Madonne col Bambino” dove l’infante replica pose che rivedremo nelle Pietà. Mentre il Natale è vicino, questa mostra milanese ci riporta a un pensiero sobrio e paradossale, dove nella nascita c’è già tutto ciò che «fummo siamo e saremo». Vesperbild è anche immagine del Planctus Mariae «alle cinque della sera», che col suo grembo rovescia la morte nella vita, la Pasqua nel Natale.

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