lunedì 15 luglio 2013
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Nei suoi occhi, adesso, vi leggiamo lo sguardo di sei milioni di ebrei. È il Bambino di Varsavia nella foto tratta dal Rapporto Stroop che da semplice illustrazione burocratica è divenuta immagine iconica, metonimica della Shoah. Un nuovo invito a leggerla viene dal saggio-racconto di Dan Porat Il bambino (Rizzoli, pagine 318, euro 15,00) che integra Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia di Frédéric Rousseau (Laterza) di un paio d’anni fa. Dan Porat, da storico, delinea i personaggi e il contesto di questa e altre foto del Rapporto, Rousseau spiega invece la sua “fortuna” nel fissarsi nell’immaginario collettivo. La fotografia è la numero 14 del Rapporto che il generale delle Ss Jürgen Stroop inviò ai suoi diretti superiori, Heinrich Himmler e Wilhelm Krüger, dopo che fu distrutto il ghetto di Varsavia e vennero deportati o uccisi 56.065 ebrei. Il documento rilegato in pelle porta il titolo in un gotico elegante: Il quartiere ebraico di Varsavia non esiste più. C’è un che di trionfalistico. La didascalia sotto la foto del bimbo in un corsivo dice semplicemente: «Estratti a forza dal bunker». Il bambino ha le braccia alzate. Lo protegge un impermeabile che gli lascia scoperte le ginocchia. La figura magrolina è leggermente scostata dalle altre persone che procedono a braccia alzate. Paura e angoscia nel suo volto. Una Ss dietro di lui imbraccia un mitra. Ha un nome. Si chiama Josef Blösche. Nel corso del processo che lo condannerà a morte, dopo più di venti anni dalla distruzione del ghetto, sarà costretto a certificare dietro una copia della fotografia la sua colpevolezza: «Questa immagine mi ritrae quale membro della Gestapo, nel ghetto di Varsavia, con un gruppo di Ss, durante un’aktion di deportazione». Sullo sfondo, che esce dal buio di un androne, si scorge Henrich Klaustermeyer che nel ghetto tutti chiamavano Frankenstein. L’atrocità della foto comincia a venir fuori, l’immagine si stacca dalla sua funzione meramente illustrativa e didascalica. L’autore delle fotografie è Franz Konrad, che un tribunale polacco condannerà a morte insieme a Stroop nel 1951. «Ho solo scattato delle foto»: tenta in sua difesa. Allo scopo di utilizzarle contro Stroop. Non gli credono. Nel sua mansione di fotografo è sistematico e freddo, come un perito delle assicurazioni fotograferebbe un’auto ammaccata per documentare un sinistro. L’idea di fotografare le quattro settimane che occorsero per distruggere il ghetto di Varsavia venne data a Stroop proprio dal generale Krüger. Le foto avrebbero dovuto avere un valore edificante: «Si tratta – pare abbia detto – di materiale prezioso per la storia, per il Führer, per i futuri studiosi del Terzo Reich, come pure per i poeti e gli scrittori nazionalisti, per la formazione delle Ss e soprattutto per documentare gli sforzi pesanti e i sanguinosi sacrifici sopportati dalla razza nordica e dalla Germania per rendere l’Europa e l’intero globo terrestre liberi dagli ebrei Judenfrei». Franz Konrad, più abile nell’arraffare i beni sequestrati agli ebrei deportati che con la Leica data in dotazione agli ufficiali tedeschi, registra con freddezza gli incendi appiccati per stanare gli abitanti del ghetto, le loro uccisioni, i cadaveri e le umiliazioni inferte. Se un compiacimento c’è nelle foto, è quella sorta di voyeurismo di cui dice Susan Sontag: «Fotografare significa [...] essere complici di ciò che rende un soggetto interessante e degno di essere fotografato, compresa, se l’interesse consiste in questo, la sofferenza o la sventura di un’altra persona». Ma la fotografia non basterebbe da sola a rendere il reale; sarebbe destinata a restare mera immagine della verità, come le ombre nella grotta di Platone, se non fosse suffragata, in questo caso, dalla conoscenza di ciò che è stato. Gli incendi nelle foto di Konrad? Sono immagini imprecise che non provocano impatto emotivo. Un fondale nero di fumo lascia immaginare che ci sia dietro un incendio. La drammaticità di queste foto sta nel numero dei morti vantato dallo stesso Stroop o nel racconto dei sopravvissuti: «I ghetto è un mare di fuoco. Un forte vento trascina le faville dai palazzi che bruciano a quelli che non bruciano ancora, e in un attimo il fuoco li divora. È spaventoso. Il fuoco si diffonde così in fretta che la gente non ha il tempo di abbandonare le case, resta dentro e fa un’orribile fine». Altri si lanciano dai balconi e le Ss li colpiscono al volo. «Banditi che saltano», recita una didascalia del Rapporto.
 
Dan Porat va a scovare i personaggi della tragedia quando ancora niente lascia immaginare la ferocia che sapranno esprimere. Jürgen Stroop è un impiegatuccio del catasto a Detmold, nel principato indipendente del Lippe; Franz Konrad è un magazziniere austriaco di Liezen con piccoli precedenti penali; Josef Blösche è un umile contadino di Frydlant. Gente normale. A loro ben si attaglia ciò che dice Hannah Arendt di Eichmann e dei suoi complici: «Questa normalità è la più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, perché implica [...] che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male». E con la Arendt riferendosi alla stessa cricca di Varsavia è legittimo chiedersi: «Se avessero vinto, qualcuno di loro si sarebbe sentito colpevole?» È una domanda che angoscia. No. Di tutti quei morti, Stroop si sarebbe vantato con i nipoti. Stroop arriva a Varsavia il 18 aprile 1943 con l’ordine impartito da Himmler di annientare la comunità ebraica. Gli altri due erano già lì. Dan Porat si sofferma su altri due protagonisti: Rivkah Trapkowits, una ragazza della resistenza del ghetto che riesce a fuggire lanciandosi dal treno che la deporta a Treblinka, e Tsvi Nussbaum sopravvissuto al campo di sterminio di Bergen-Belsen. Diventerà medico a New York. Sarà indicato come “il bambino di Varsavia”. Ma il medico si limiterà a dire: «Penso che si tratti di me, ma onestamente, non potrei giurarlo. I bambini ebrei a cui fu ordinato di alzare le mani furono un milione e mezzo».
Passeranno anni prima che la foto del ragazzino di Varsavia acquisti questo significato metonimico. Alcune foto del Rapporto furono esibite al processo di Norimberga. «Un documento rivoltante – disse il giudice americano Robert H. Jackson – che prova il carattere organizzato e sistematico delle persecuzioni contro gli ebrei». Ma il bambino non c’era. In questi anni anche Ben Gurion stabilisce un legame diretto tra le lotte dei ghetti in nome del diritto all’esistenza e quella combattuta in Palestina per il diritto a una patria. «Nel sistema memoriale specifico degli anni del dopoguerra, largamente dominato dagli eroi – ragiona lo storico Rousseau – non è affatto sorprendente che la fotografia del bambino del ghetto di Varsavia abbia difficoltà a farsi largo». Quando poi la visione resistenziale dominante si indebolisce, a partire dagli anni Sessanta il bambino di Varsavia comincia ad acquistare quel “valore altro” rispetto alla foto che Stroop scelse per illustrare la sua impresa. Allora la foto «supera lo stadio dell’illustrazione e poi della personificazione dell’insurrezione del ghetto di Varsavia per incarnare – dice Rousseau – il genocidio nella sua totalità». Comincia Gerhard Schoenberner a utilizzare l’immagine per il suo libro La stella gialla. Poi, via via, se ne appropriano tutti. Anche artisti sensibili a questo dolore. La conoscenza del quale integra l’immagine che, secondo Vilém Flusser, come ogni immagine, è costituita anche dall’intenzione dell’osservatore. Il suo sguardo, in questi anni di utilizzo della foto, è stato educato a vedervi una sintesi storica, iconica e memoriale dell’eliminazione degli ebrei. Forse anche per questo i tentativi di dare un nome al bambino di Varsavia sono stati vani. Quel bambino ha il nome di tutti i bambini che sono stati testimoni dell’orrore ma che non hanno potuto testimoniarlo.
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