lunedì 7 luglio 2014
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Le nostre origini sono messe a ferro e fuoco. Avviene in Siria, ora. Qui l’uomo neolitico è diventato sedentario, si è “inventato” l’agricoltura. Qui è nato il nostro modello di città. Qui abbiamo cominciato a scrivere. Qui abbiamo sognato un al di là, edificando templi da 5mila anni. E qui, verso Damasco, Paolo si convertiva al cristianesimo e Alessandro Magno fondava città splendide come Palmira. E moschee costruite al tempo di Maometto si alternano a chiese bizantine, a fortezze crociate. Nel 2011 qui è cominciata una guerra che sta distruggendo le nostre origini dalle origini e non dà segni di finire. Trasforma uomini in profughi e patrimonio culturale in trafugamenti. Da una parte una settantina di missioni archeologiche sono state interrotte. Dall’altra si sono fatti avanti i professionisti del commercio clandestino: gruppi di mercenari senza scrupoli specializzati nel depredare opere d’arte o patrimonio storico culturale di qualsiasi epoca. Bisogna fare in fretta. Agiscono poco prima dello scoppio di un conflitto, in qualsiasi parte del globo esso si vada generando. Arrivano prima di tutti. Non fanno viaggi a vuoto, hanno un giro consolidato di acquirenti. Un giro d’affari perfetto produce ricchezza ottimizzando i benefici del disastro. I beni trafugati non vengono pagati solamente in denaro, ma per lo più in armi: una forma di baratto che fa comodo a tutti. Alcuni agiscono su commissione, approfittano del caos per scavare nuovi reperti.
“Archeologi” armati di bulldozer e ruspe, dopo aver spogliato quanto si trova sopra la terra, ne depredano anche la profondità. Fuori dal grosso giro, si collocano poi i piccoli contrabbandieri di confine, che ricettano dalla Siria manufatti di valore inestimabile, tentano di venderli ma anche loro, al denaro, preferiscono il baratto in armi, poiché il guadagno sale esponenzialmente. E non importa il rischio di una decina d’anni di reclusione. Così la guerra può continuare a prosperare e a far prosperare le diverse parti in gioco, poiché il mercimonio è trasversale. Ma anche ci dimostra l’ennesimo stravolgimento dei valori se una statuetta mesopotamica costa meno di un fucile postmoderno.  Anche chi fugge si trova costretto a vendere antichi e tramandati ricordi per sopravvivenza. I profughi della guerra in Siria sono attualmente 9 milioni, di cui 6 si spostano ancora all’interno del Paese, da una città all’altra spinti da bombardamenti e atrocità. Chi vive una condizione del genere prima di scappare dalla propria casa è costretto a fare la cernita veloce del necessario. Deve pensare in fretta, riempire il fagotto per sé e i tanti figli. Il 70% dei fuggitivi sono donne e bambini. Alla pura sopravvivenza cosa potrebbero aggiungere in valigia se non un ricordo di famiglia? E questo si rivelerà il primo a essere venduto, come la disperazione arriva a far vendere una giovane figlia. Tutto si mischia dentro a un baratro che sembra non avere fine o limiti. E così le gambe dei rifugiati non conducono solo le persone nella fuga, ma anche antichi monili o manufatti: tutti verso un altrove che, con sorda costanza, spoglia di carne, menti, cultura, beni e simbolico un intero Paese. Quell’oggetto venduto per la sopravvivenza non possedeva solo un valore economico ma anche simbolico, esattamente come un monumento distrutto o trafugato. Non è un caso che l’etimologia di simbolo significhi tenere insieme e il suo contrario sia diavolo, ovvero dividere. Il male dunque è ciò che ci separa dai cari e dal caro. Un tassista di Aleppo, che ha trovato riparo con i suoi 17 figli e 2 mogli in una tendopoli nella Valle della Bekka, in Libano, afferma: “non saprei più dove portarti per visitare la città. Aleppo era bellissima, ma non ho più idea di come sia ora, veramente.” Si segna gli occhi come chi ha perso la vista. Apparteneva alla classe media, poteva addirittura permettersi due mogli… ora non ha più nulla, se non il sostegno di UNHCR e di Caritas Italiana. Dipende dagli aiuti. I rifugiati di questa guerra, quando finalmente potranno tornare nel loro Paese, non solo faticheranno a ritrovare la propria casa in piedi, ma anche i riferimenti che orientavano il quotidiano, che definivano la loro identità. Per molti non ci saranno le basi su cui ricostruire se non un ricominciare completamente da capo su radici mozzate. L’International Council of Museums (Icom) ha reso fruibile una “lista di emergenza rossa”, stilata a distanza da un gruppo di esperti, che elenca gli oggetti rappresentativi della cultura siriana a rischio e viene distribuita ad autorità ufficiali, case d’asta e musei in tutto il mondo. Anche un corpo scelto dei nostri Carabinieri lavora contro la depredazione. Il 13 settembre 1971 il reparto, "Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Artistico" venne elevato a Comando di Corpo, con alle dipendenze il "Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Artistico". Il Comando si avvale della collaborazione degli organi di polizia nazionali, di tutte le Sovraintendenze italiane, dell'Interpol e degli addetti culturali delle ambasciate italiane all'estero. L’alta pericolosità del conflitto siriano non ha permesso il monitoraggio in loco. Ma nell’era dell’informazione schizofrenica nutrita anche dai telefonini alcuni filmati buttati in rete raccontano di bombardamenti a castelli o siti archeologici. Anche questo serve a censire quanto sta accadendo in luoghi fuori controllo. Il fatto poi che i giornalisti internazionali non possano più entrare nel Paese aggrava ulteriormente la situazione impedendo un’osservazione critica e necessaria. Ma anche gli esseri umani vengono trafugati a fronte di guadagni illeciti. Sono già 24mila i siriani arrivati in Italia, molti di loro attraverso l’alacre lavoro degli scafisti, dall’Egitto. Il costo del viaggio va dai mille ai 3mila euro a persona. Chi non paga viene buttato a mare, ma la disperazione non ha prezzo. E tra gli esseri umani ce ne sono anche di eroici, che contrastano la forza distruttiva del caos. Allo scoppio della guerra civile libanese, nel 1975, il Direttore Generale delle Antichità libanese, Maurice Chehab, fa impacchettare le opere del Museo Nazionale di Beirut in vere e proprie “gabbie” di blocchi di cemento e casse di legno, altrove fa erigere un muro per occultare i depositi. Per quindici anni il museo viene occupato da squadroni e cecchini, trasformato in caserma, controllato di volta in volta da milizie libanesi, siriane e israeliane; subisce bombardamenti e assalti con armi da fuoco. Il trucco funziona: nessuno fa caso a quel muro o si interroga su quei blocchi di cemento, dietro i quali stanno nascosti mosaici, piccoli manufatti, statue e sarcofagi protetti da sacchi di sabbia e cemento. Finita la guerra, le planimetrie denunciano la stranezza. Il muro viene abbattuto, le coperture dei blocchi rimosse e la sorpresa lascia muratori e archeologi esterrefatti nello svelare per la seconda volta la meraviglia dell’uomo antico e di quello moderno. Oggi le vicende di Priamo e Achille, sbalzate su un sarcofago, s’intrecciano con quelle di Maurice Chehab, impresse su forex in una stanza a lui dedicata. Perché il museo di Beirut non racconta solo l’archeologia, ma l’intreccio dei tempi, la relazione della storia antica con quella contemporanea. In sintesi: il cuore eroico dell’uomo capace del male estremo come del suo estremo contrario. E così le vicende del mosaico del Buon Pastore s’intrecciano alle faccende di un cecchino, che lo perfora per farne il punto preciso da cui uccidere senza essere visto o colpito. Tutto ciò che appartiene al nemico diventa spregevole e “sfregevole”. Danneggiarne la memoria è pratica di guerra, fa parte dell’addestramento, fa parte dell’annientamento, del tagliare le radici a cui si aggrappa una popolazione come si tiene al sangue degli antenati. C’è una stretta correlazione tra l’arte e la vita, sempre, e le forme di morte che distribuisce una guerra hanno varie sfumature. L’arte tenta da secoli di proiettare l’uomo nell’eternità, di togliere nutrimento alla fine di tutto. La Cooperazione Italiana ha finanziato il restauro della Tomba di Tiro e la risistemazione del sotterraneo del Museo di Beirut, che ospiterà un’esposizione di opere sui temi legati alla morte e una rara collezione di sarcofagi ellenistici. L’uomo desidera fermare il tempo contro ciò che mangia la carne e lo fa con la pietra e l’ingegno. Non si rassegna alla distruzione, bloccando la figura precisa di un volto in ciò che, per propria natura, resiste. Alle mummie si legano le maledizioni più spaventose per demotivare l’uomo dal mettere le mani in ciò che non gli appartiene e che deve resistergli. Il depredare è una pratica antica, perché il rubare è antico come l’uomo. È, in questo caso, un privare non solo i vivi, ma anche i morti del necessario per l’eternità. Sfregiare invece ha una funzione diversa, che ha più a che vedere con l’umiliazione e la prostrazione, al contrario il restauro diventa un movimento di restituzione della memoria per recuperare quanto il diavolo ha scisso. (Un caloroso ringraziamento a Palma D’Ambrosio e Anna Dal Maso, senza le quali la stesura di questo articolo sarebbe stata impossibile)
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