venerdì 9 maggio 2025
Da qualche anno gli Oscar premiano pellicole solo apparentemente raffinate, in realtà spesso sopravvalutate. E ignorano il grande pubblico
Vanja (Mark Ėjdel'štejn) e Anora (Mikey Madison) in una scena del film "Anora", trionfatore agli ultimi Oscar

Vanja (Mark Ėjdel'štejn) e Anora (Mikey Madison) in una scena del film "Anora", trionfatore agli ultimi Oscar - WikiCommons

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Vento favorevole a donne intraprendenti e coraggiose ha soffiato sui David di Donatello consegnati il 7 maggio: Maura Delpero con Vermiglio ha ottenuto meritatamente grandi consensi e sul fronte degli esordienti Margherita Vicario (con un film a dir la verità un po’ acerbo, anche se produttivamente coraggioso) ha mietuto diversi altri riconoscimenti. Ma ora che sappiamo chi ha avuto i nostri piccoli Oscar nazionali, vediamo, a qualche settimana di distanza da una delle notti degli Oscar meno entusiasmanti degli ultimi anni, qualche breve spunto su dove sta andando l’industria hollywoodiana. Non è tirata una bella aria sulla manifestazione più importante per la prima industria dell’intrattenimento del mondo: gli Oscar stanno ormai da diversi anni diventando la brutta copia di quello che decide una giuria di un qualunque festival europeo. Se un tempo gli Oscar erano la consacrazione di film popolari, per tutti, che sicuramente valeva la pena vedere e che avrebbero aspirato a rimanere a lungo nelle preferenze degli spettatori (come fu a cavallo del secolo per Il gladiatore, A Beautiful Mind, Il Signore degli Anelli e altri), da diversi anni sembra che fra i circa diecimila votanti dell’Academy sia divampato da una parte un odio viscerale per tutto quello che sa troppo di major studios e, dall’altra, un terribile complesso di inferiorità verso il cinema d’autore (europeo o americano che sia). Dopo vincitori discutibili – per motivi anche molto diversi fra loro – come Moonlight, Nomadland, CODA, Everything Everywhere All at Once (tutti film già ampiamente dimenticati), siamo arrivati quest’anno ad Anora, un film che si può tranquillamente definire quasi pornografico. Ma è anche un film debole, prolisso, con pochissima storia, quindi tendenzialmente noioso, a parte qualche momento di commedia; un film spesso ripetitivo negli step narrativi, e che si riscatta solo lievemente in un finale intenso e commovente. Ma deve aver convinto molti membri dell’Academy che, avendo già vinto a Cannes, non poteva non essere un capolavoro... Giustamente su queste pagine Antonella Mariani ha messo in dubbio l’idea di fondo del regista Sean Baker di “riscattare” o “rendere omaggio” al lavoro delle cosiddette sex workers, lavoro che ha aspetti degradanti su cui il film sorvola con grande superficialità, per concentrarsi solo sulla ricerca dell’American Dream (amore e soldi) da parte della protagonista, che poi verrà amaramente delusa. È noto che l’altro grande favorito degli Oscar, Emilia Pérez, è stato messo sostanzialmente fuori gioco dalle dichiarazioni improvvide della sua attrice protagonista qualche anno fa su X: era già pronta l’esaltazione mediatica della prima transessuale a vincere l’Oscar come miglior attrice protagonista, ma quegli infelici tweet hanno bloccato la marcia trionfale della pellicola che si è dovuta accontentare di qualche premio molto minore. Anche qui, la storia narrata dal film era totalmente implausibile: un narcotrafficante cattivissimo e crudele che cambia sesso e diventa una dolcissima e altruista signora di buona famiglia, salvo poi tornare a essere possessiva e violenta quando vede il rischio di perdere i propri figli. Grande è stato l’entusiasmo degli addetti ai lavori per il mix di generi (gangster, drama, musical) e per il fatto che fosse un film “latino” (regista francese e ambientazione messicana). Ma la storia e il personaggio traballano: pronostichiamo che anche questo film non reggerà al passare di qualche anno. Molto sopravvalutato anche The Brutalist, altro film protagonista agli Oscar, che impiega più di tre ore a narrare una storia già vista molte volte e senza novità. È uno di quei film falsamente profondi che in realtà si limitano a qualche bella inquadratura e a un’interpretazione dolente di un protagonista tormentato (con in più un finale appiccicato in modo poco coerente). Di tutti quelli che abbiamo visto, il film veramente di alto livello è a nostro parere il brasiliano Io sono ancora qui (Oscar al miglior film straniero, ma aveva anche due altre nomination), di Walter Salles. È la storia vera di una madre che deve gestire lo strazio di vedere il marito scomparire per sempre nelle prigioni della giunta militare brasiliana, e reggere la famiglia di cinque figli fino a ottenere finalmente, dopo molti anni, la verità. Il film gode di un’interpretazione superlativa di Fernanda Torres, attrice protagonista che dà un’intensità straordinaria al suo personaggio: avrebbe meritato l’ambita statuetta. Invece molte nomination ma pochi premi, collaterali, a The Substance (si aspettava Demi Moore come miglior attrice), al discutibilissimo Conclave e anche a Wicked. Nulla per A Complete Unknown su Bob Dylan, che segue un trend autoriale di questi ultimi anni (è il caso di Maestro su Leonard Bernstein): biografie minuziose nella ricostruzione d’epoca, con performance notevoli dell’attore protagonista, ma che poi non riescono a costruire una storia davvero universale come invece era accaduto per Amadeus o il citato A Beautiful Mind, o la biografia di C.S. Lewis Viaggio in Inghilterra) per limitarsi invece a riportare fatti e aneddoti di personaggi che rivelano la loro mediocrità come esseri umani, quando non il loro lato oscuro. Agli Oscar californiani meritavano ben di più invece Dune e il film più bello (e di maggior incasso) del 2024: Inside Out 2, evidentemente non abbastanza “strano” per l’Academy... Ma perché tutta questa avversione per i grandi studios? Probabilmente fra i votanti c’è delusione, forse pewrsino odio, per le scelte di colossi come Disney, Warner, Universal, Sony, che sembrano finanziare solo super-giocattoloni costosissimi, seconde, terze o quarte uscite di franchise di successo, puntando tutto sulla intellectual property (la notorietà di un romanzo o di un film precedente con gli stessi personaggi e gli stessi mondi), oppure sul ricorso a grandi star, non riuscendo più a sviluppare e rischiare su storie originali: niente più Il discorso del re, o Il diritto di contare o La La Land, cioè film che univano una fattura di primo livello (sebbene Il discorso del re aveva un budget minimo per gli standard hollywoodiani, “appena” 15 milioni) e che bene o male riuscivano a mettere d’accordo critica e pubblico. Negli ultimi anni quasi solo alcuni film di Cristopher Nolan vi sono riusciti – il più recente è stato Oppenheimer. Con lui anche Greta Gerwig, prima con un eccellente Piccole donne e poi con un intrigante Barbie. Ora la regista è alle prese, per Netflix, con la serie delle Cronache di Narnia: il primo film dovrebbe uscire a fine 2026, dapprima in sale Imax e poi sulla piattaforma, ma Gerwig dovrebbe girarne almeno due. Quello che sta succedendo è un consistente passaggio di potere dalla vecchia e molto coesa élite hollywoodiana ai gestori delle nuove piattaforme (alcuni di loro hanno un cursus honorum tipicamente hollywoodiano, vengono cioè dai grandi studios, ma alcuni no). C’è però anche il fatto che si sta facendo sempre più rara e meno valorizzata la figura del produttore, cioè il professionista esterno che sviluppa il progetto e ottiene il finanziamento dalle major: David O’ Selznick che era il vero autore di Via col vento, Brian Grazer, o Jerry Bruckheimer, persone capaci cioè di sviluppare una storia, trovare il giusto sceneggiatore, il regista adatto, le star necessarie per un progetto con un budget commisurato e non fantasmagorico, che però curavano molto bene tutta la fattura del film per farlo diventare indimenticabile: si pensi a Forrest Gump. Negli ultimi anni abbiamo assistito invece a registi che hanno ottenuto carta bianca da Netflix per realizzare film che nobilitassero la piattaforma (Martin Scorsese, Guillermo del Toro, Alfonso Cuarón con Roma). Ma è molto probabile che ora Netflix – che da un annetto ha affidato la responsabilità dei film a un produttore di origine taiwanese, Dan Lin ( Sherlock Holmes, The Lego Movie), amante dei film family friendly – cercherà meno la “consacrazione” dei premi, e avendo vinto la sua battaglia sul numero di abbonamenti cercherà più film “larghi”, mainstream e per famiglie, come il recente Back in Action, con Jamie Foxx e Cameron Diaz. Nel frattempo, le major tradizionali si sono concentrate soprattutto sui loro franchise storici, puntando a produrre sequel uno dietro l’altro senza curare la qualità della storia: è il caso della Marvel e Star Wars per Disney, o Fast and Furious per la Universal. Ma un fatto macroscopico di cui nessuno parla e su cui c’è pochissima riflessione è il successo sempre maggiore dell’animazione. Il successo del film cinese Ne Zha 2, che ha battuto tutti i record per un film non americano superando i 2 miliardi di dollari prima ancora di essere distribuito fuori dalla Cina, arriva dopo il fatto che nel 2024 tre dei primi cinque (e sei dei primi dieci) incassi mondiali hanno riguardato film di animazione, mentre l’animazione giapponese sta conquistando sempre di più i mercati europei. Quello dell’animazione è un settore che negli ultimi vent’anni è cresciuto enormemente. E qui, più ancora che in altri settori, Europa e Italia rischiano di essere davvero il fanalino di coda.

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