giovedì 17 aprile 2025
Il confronto della scuola occidentale con altre tradizioni di pensiero non può permettersi amnesie selettive e può far tesoro di forme di razionalità pratica profondamente diverse dalla nostra
Ramón Enrich, “P. Itan” (particolare), 2025.Opera esposta nella mostra “Architettura e Utopia”, allestita fino al 30 maggio alla Galleria Cadogan di Milano

Ramón Enrich, “P. Itan” (particolare), 2025.Opera esposta nella mostra “Architettura e Utopia”, allestita fino al 30 maggio alla Galleria Cadogan di Milano - foto Pietra Studio / cortesia Cadogan Gallery

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La pressione esercitata dalle sfide globali interpella l’etica applicata in modo ineludibile, rendendo evidente, anche agli occhi dei non specialisti, la questione di fondo: le risorse della filosofia sono in grado di incidere concretamente su questioni decisive come la qualità della convivenza, la tenuta delle istituzioni, la sostenibilità delle scelte economiche, il destino stesso dell’umano, solo per citarne alcune? O restano sullo sfondo, in una posizione di irrilevanza?

Nel dibattito sul rapporto tra l’etica e la realtà, non manca mai la voce di coloro che rivendicano con orgoglio la distanza della filosofia da ogni utilità pratica, vissuta come una tutela da ogni possibile deriva. È una posizione che indubbiamente ha le sue ragioni. Tuttavia, se è vero che il pensiero è già azione, è altrettanto vero che l’insistenza sulla distanza rischia di trasformarsi in un vero e proprio congedo dalla vita, in quell’“occultamento” che, secondo papa Francesco, produce «i purismi angelicati, i totalitarismi del relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza» (Evangelii Gaudium, 231).

Il nesso tra pensiero e realtà è una questione antica che oggi conosce un capitolo nuovo a fronte della pressione ineludibile di urgenze globali che non consentono rinvii. In questo scenario, al filosofo è chiesto di cercare risposte capaci di mobilitare l’unità del sapere, non solo la somma dei suoi settori specialistici; di confrontarsi con tradizioni culturali anche lontane; di aprirsi a forme diverse di concepire il senso e la norma.

Lungo questo sentiero, si incontrano tre domande. La prima nasce da un’evidenza essenziale: il confronto con altre tradizioni di pensiero non può permettersi amnesie selettive. Mentre è necessario riconoscere il valore di molte correnti della filosofia occidentale, non si può ignorare che nessun paradigma, preso isolatamente, può oggi rivendicare un’efficacia universalmente condivisa nell’affrontare le crisi in atto. Non solo: alcune delle matrici stesse delle emergenze attuali affondano le radici proprio in visioni occidentali, come l’antropocentrismo esasperato che ha favorito lo sfruttamento ambientale, il tecnicismo che ha separato il sapere dalla saggezza, o l’individualismo competitivo che ha logorato i legami sociali. Dunque, cosa resta della nostra razionalità quando incontra logiche che ne mettono in crisi i presupposti?

La seconda domanda riguarda il senso del dialogo con il mondo che, oggi, non può restare un’idea astratta: riguarda, infatti, soggetti concreti, chiamati a confrontarsi su scelte che hanno effetti reali e duraturi, ben oltre i confini geografici o generazionali. L’etica, in questo contesto, non può più limitarsi a enunciare principi generali: è chiamata a entrare nei processi decisionali, a costruire spazi di confronto reale, a parlare un linguaggio accessibile che sappia farsi ascoltare. È tempo di uscire dalla logica della “riserva indiana”, dove il pensiero resta libero ma chiuso, privo di incidenza. Che cosa accade, allora, se l’etica decide davvero di abitare i luoghi dove il confronto si gioca sul serio?

La terza questione scaturisce dalla eventualità non remota che proprio il dialogo con altre tradizioni ci metta di fronte a forme di razionalità pratica profondamente diverse dalla nostra. Non si tratta di accogliere modelli morali “altri” come semplici coloriture etnografiche del proprio vocabolario normativo, ma di riconoscere l’esistenza di grammatiche morali che operano secondo logiche autonome, talvolta incompatibili con quelle occidentali. Confrontarsi con esse implica accettare il rischio di una dislocazione del proprio punto di vista. Siamo disposti ad accettare che il confronto con l’altro non confermi ciò che già sappiamo, ma ci costringa a ripensare i criteri stessi della nostra etica?

Fatte queste considerazioni, dobbiamo osservare che il confronto con tradizioni filosofiche diverse dalla nostra, per quanto necessario, non è esente da tensioni o possibili fraintendimenti. Il primo di essi è rappresentato da ciò che definirei un esotismo auto-consolatorio, in cui l’altro non è valorizzato per ciò che è, ma semplicemente in quanto “altro”. La differenza diventa, di per sé, garanzia di valore. Un esempio ricorrente si trova nell’idealizzazione di modelli educativi alternativi, come quelli ispirati alle scuole finlandesi o a certe comunità pedagogiche dell’America Latina. Tali approcci vengono spesso invocati come panacea ai fallimenti della scuola occidentale, senza un’effettiva comprensione delle condizioni sociali, culturali e istituzionali che ne rendono possibile l’applicazione. In questo modo, l’altro pedagogico viene spogliato della sua complessità e assunto come proiezione di un bisogno irrisolto. Il pensiero, anziché interrogare criticamente la propria tradizione formativa, la disloca all’esterno, in una sorta di rifugio mitico che non chiarisce né le alternative né il punto di partenza.

Un secondo rischio è il sincretismo ornamentale: l’apertura all’altro si riduce a un collage di riferimenti teorici eterogenei, spesso incompatibili, senza un vero lavoro di mediazione concettuale. L’intenzione dialogica cede il passo a un pluralismo retorico. Accade, ad esempio, quando categorie aristoteliche vengono affiancate a concetti della filosofia africana o indiana, ignorandone le profonde differenze ontologiche, epistemologiche e assiologiche. Il risultato non è un dialogo, ma una giustapposizione che evita la fatica della traduzione.

Il terzo rischio, forse il più insidioso, è rappresentato da una neutralità che rinuncia a prendere posizione in nome del rispetto di ogni prospettiva. Si finisce così per accogliere tutto, ma senza dire nulla. Il timore di esercitare una qualsiasi forma di influenza sull’altro genera una sospensione continua, in cui le parole si svuotano e nessuna voce riesce davvero a farsi ascoltare. Davvero, possiamo dimenticare i matrimoni forzati imposti a ragazze minorenni o tacere davanti alla negazione della libertà religiosa? Di fronte a tutto questo, il silenzio non è neutralità, è complicità.

In conclusione, l’orizzonte che si apre davanti all’etica applicata è quello di un “pensiero ospitale”: una filosofia che fa dell’accoglienza non solo il proprio oggetto di riflessione, ma il proprio metodo. Questo pensiero ospitale opera un duplice movimento: da un lato, si immerge nella concretezza delle sfide globali, rifiutando la comoda distanza dell’astrazione; dall’altro, apre le porte al confronto con tradizioni filosofiche diverse, riconoscendo che nessun paradigma isolato può oggi affrontare efficacemente le crisi in atto. L’ospitalità di cui parliamo non è un relativismo accomodante che evita di prendere posizione, ma un’etica dell’incontro che sa accogliere senza assimilare, confrontarsi senza imporre, criticare senza svalutare. È in questo esercizio quotidiano di ospitalità intellettuale che la filosofia può ritrovare la sua rilevanza: non come sistema chiuso di risposte, ma come pratica aperta di interrogazione che contribuisce a costruire un mondo dove le differenze non siano minacce ma risorse per un’umanità più consapevole e solidale.

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