domenica 11 maggio 2025
Un volumetto eccentrico di uno dei più colti e raffinati scrittori italiani: tra il pamphlet e il prontuario, solleva molte domande sull’esperienza di scrivere e leggere.
Un ex libris di Harold Nelson del 1900 per Studio Magazine competition

Un ex libris di Harold Nelson del 1900 per Studio Magazine competition - Credit: past art / Alamy Stock Photo

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Particolarmente prolifica in questi ultimi mesi è la presenza sugli scaffali di Hans Tuzzi, uno dei più colti e raffinati scrittori italiani in attività, parimenti a suo agio nelle vesti di narratore e in quelle di saggista, ma anche bibliografo e studioso della storia del libro, bibliofilo e bibliomane di sapienza incomparabile. Nell’ottobre dell’anno scorso, per Bollati Boringhieri, aveva infatti congedato Colui che è nell’ombra: una saga che inizia nel 1937 e ha come protagonista una nobile famiglia inseguita di padre in figlio per quattro generazioni. Romanzo che felicemente coniuga la filogenesi con l’ontogenesi, la genetica con la metafisica, l’affresco storico-antropologico col romanzo di formazione, quando è vero che il racconto del tramonto d’una civiltà (quella aristocratica e contadina friulana) si intreccia alle ilarotragedie della psiche. Sontuosa e culta, la lingua di Tuzzi, ma esatta in tutte le sue screziature. Sentite qua: «Già neonato, si capì che Curzio aveva preso dal ramo materno. Non Avogadro, snelli e flessuosi come levrieri, ma atticciato e massiccio come uno spinone aveva, di quel cane, i capelli ispidi e di un castano tendente al rosso». E poi: « La carnagione, pallida, andava soggetta a improvvisi afflussi sanguigni quando piangeva per reclamare la poppata, e allora le guance sembravano due bistecche pronte per la grigliata ». Infine: «In quel volto, gli occhi di ghiaccio degli Avogadro sarebbero stati sprecati, incongrui come un quadro barocco nell’atrio di un condominio anni Sessanta. Come un Modigliani in un casino di caccia».

A dicembre, poi, sarebbe stato stampato per conto di Ronzani Editore il Bestiario bibliofilo, riproposto sedici anni dopo la prima edizione, dove, «dall’Agnello alla Volpe», non si fa altro che elencare «quegli animali che figurano nelle marche tipografiche in Italia, in Europa e talvolta nel Nuovo Mondo, dando poi, per ciascuno di essi, la descrizione delle marche dei tipografi nelle quali compaiono». Per ogni animale viene fornita «una breve divagazione iconografica e letteraria, per poi elencare alfabeticamente (non cronologicamente) i tipografi che lo hanno effigiato nelle marche, delle quali si danno succinte descrizioni che in genere ignorano eventuali varianti». Ecco perché «un tipografo può perciò figurare sotto diverse voci (se ne dà rinvio), nel caso in cui la sua marca comprenda due o più animali, o se ha utilizzato più di una marca con animali». Da ultimo arriva ora in libreria La letteratura come una delle arti equestri (pagine 96, euro 15,00), proposto dalle edizioni Italo Svevo nella deliziosa “Biblioteca di letteratura inutile”, collana arrivata al suo quarantanovesimo volume e inaugurata dallo stesso Tuzzi: una vera e propria enciclopedia delle eccentricità inventata da Giovanni Nucci. È un libro che accampa con un certo orgoglio il suo stemma araldico e che s’avvale come suo blasone d’una celebre profezia di Dostoevskij: «Un giorno l’idea di eguaglianza sarà così diffusa che non si potranno dire cose intelligenti per non offendere gli stupidi».

La letteratura - Tuzzi ne è sicuro all’opposto della politica è infatti aristocratica, non cerca il consenso democratico, non teme di offendere gli stupidi: «Uno scrittore sa che le convinzioni sono più importanti delle convenzioni». Ne è venuto fuori un librino densissimo, che è tante cose insieme, le più diverse: un prontuario per scrivere e leggere bene; un trattato di ontologia della letteratura more non geometrico; un saggio di critica letteraria per appunti e divagazioni; un pamphlet di miti polemiche letterarie; un dizionarietto di luoghi non comuni ma di buon senso; un trattatello italiano eppure borgesiano; una dichiarazione di poetica. Tante, poi, sono le domande che queste pagine sanno suscitarci. Eccone qualcuna: se il meno è più, che cosa è meno nell’arte? Oppure: quanto si deve osare per essere scrittori? O magari: di un’opera «sono più importanti la trama o i personaggi»? E ancora: in che senso l’autore e il lettore sono «due affollate solitudini in dialogo»? In quale modo nella fiaba può vivere il segreto di ogni romanzo? Ma anche, e più tecnicamente, riportando alla lettera il titolo di alcuni capitoli: “Il bravo scrittore sa (anche) escludere”; “Miglior lettore è colui che rilegge”; “Contro gli spontaneisti nell’arte”; “Che genere di regole per i romanzi di genere?”.

Senza dire del gusto che un lettore potrà trarre dalle tante citazioni. Pascal: « Mi scuso per la lunghezza di questa lettera, ma non ho avuto il tempo di scriverne una più breve». E sentite come Colette di fatto risponde al Flaubert di « Madame Bovary c’est moi!»: « Immaginate, leggendomi, ch’io faccia il mio ritratto? Pazienza: è solo il mio modello». E che dire di Italo Svevo che nei manuali, quanto ai rapporti tra letteratura e psicoanalisi, porta la croce del precursore italiano? Eccolo in una lettera a Valerio Jahier del 10 dicembre 1927: «Grande uomo quel nostro Freud, ma più per i romanzieri che per gli ammalati ». Lucidissimo Tuzzi, ma proprio perché, come «lo splendido, fulminante» Chateaubriand, è sicuro che «molte cose essenziali della vita, quelle vere», non si possono affrontare con la « Ragione», la quale «non ha mai asciugato una lacrima».

Di qui il primato conferito alla letteratura: « Perché la letteratura è anche un’esigenza del cuore, una forma del pensare il mondo, una natura del vivere che è in noi o non è, e se lo è ci permea per tutta l’esistenza, si pubblichi anche un solo libro». Di qui la convinzione (ancora contro la convenzione) che le scuole di scrittura non siano in grado in alcun modo di «insegnare l’ineffabile alchimia del nostro stile», ma possano al più «incoraggiare» il talento e allenarlo. Sarà vero, come diceva Ennio Flaiano, «che in Italia la linea più breve fra due punti è l’arabesco»? Tuzzi sa che gli scrittori mentono sempre. Salvo suggerire che in letteratura la menzogna è, forse, il modo più onesto per arrivare alla verità.

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