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Sandro Veronesi - WikiCommons
Cosa significa essere cristiani in un mondo che non lo è più? È da questa domanda – che dà anche il titolo a un saggio del cardinale Jozef De Kesel edito dalla LEV – che prende le mosse l’incontro di oggi alle 17.15 al Salone del Libro di Torino (Sala Viola) tra il teologo belga e lo scrittore Sandro Veronesi. Due voci lontane per formazione e percorso, ma unite dalla volontà di interrogarsi sul ruolo della fede, della Chiesa e della comunità nella società contemporanea. Un dialogo, il loro, attraversa il senso del Vangelo oggi, il rapporto tra credenti e non credenti, l’eredità di Francesco e la sfida della Chiesa che sarà con papa Leone XIV. Ne abbiamo parlato con Veronesi, che in questa conversazione riflette su come il cristianesimo continui a parlarci anche, e forse soprattutto, da fuori, perché come scrive De Kesel sull’ultimo numero di “Vita e Pensiero”, «stiamo vivendo la transizione da una cultura religiosa a una cultura secolare, dopo che per più di un millennio il cristianesimo è stato la religione culturale dell’Europa. Ma una società secolare è per la Chiesa non una minaccia, semmai una sfida e una grazia». Per queste ragioni bisogna accogliere il «cambiamento d’epoca», per avvicinarci un po’ di più a comprendere il rapporto tra Chiesa e mondo.
Cominciamo dalla recente scomparsa di papa Francesco. Nel panorama culturale, sociale e globale, il suo impegno per la giustizia sociale, la sua attenzione agli ultimi, la promozione di un dialogo aperto con il mondo contemporaneo, ha rappresentato un tentativo di rinnovamento del cristianesimo. Come si possono interpretare, in questo contesto, la sua figura e la sua eredità?
«Partiamo da un presupposto: se Francesco non ci avesse lasciati, il mio incontro con De Kesel avrebbe avuto una valenza diversa oggi, perché Francesco ha saputo più di altri stimolare certe aperture, tuttavia non avremmo pensato – come forse facciamo un po’ di più in questo momento – che ne sarebbe andato del futuro della Chiesa. Per rispondere alla domanda, diciamo che l’attenzione agli ultimi è stato un suo tratto distintivo, ma dovrebbe essere in qualche modo anche il programma di massima di qualsiasi Papa. Francesco lo ha incarnato in un certo modo, ma è e deve necessariamente essere un tratto comune a tutti».
Parliamo di De Kesel e di Cristiani in un mondo che non lo è +. Cosa l’ha colpita?
«A colpirmi davvero del suo pensiero è questa idea che il cristiano oggi debba andare “nel secolo” con il Vangelo in mano. Nessuna pretesa di superiorità, conversione o giudizio. Questo non lo avevo mai sentito. Al contrario, si è parlato spesso di secolarizzazione come perdita di vocazione. Credo che nello spirito vero del Concilio Vaticano II, e in particolare nella Dei Verbum, ci fosse già il germe di questo dialogo: non più chiuso, ma aperto al mondo. E secondo me De Kesel porta alle estreme conseguenze questa visione».
C’è un filo rosso che unisce il libro di De Kesel a Francesco?
«Forse senza Francesco questo libro non si sarebbe potuto nemmeno pubblicare. Il suo messaggio è chiaro: la Chiesa deve convertirsi a un tempo in cui non è più superiore, ma comunità. E questo, per un non credente come me, è emozionante, cioè mi permette di condividere un’esperienza autenticamente sinodale, dato che sinodo, termine utilizzato quasi solamente all’interno della comunità cristiana, in realtà significa “camminare insieme”. Ricordo negli anni dell’università che alcuni gruppi legati alla Chiesa erano inaccessibili dall’esterno, erano giudicanti, ma negli ultimi anni mi sono trovato a parlare spesso con questi gruppi in modo sorprendente. È cambiato il loro modo di essere presenti nel mondo».
Lei hai scritto di un Vangelo, quello di Marco. Con quale punto di vista? Le è stato d’aiuto nel comprendere il messaggio di De Kesel?
«Ho provato a studiare il Vangelo di Marco da un punto di vista narratologico, ma poi, inevitabilmente, sono entrato nel cuore del messaggio. Il Vangelo non è un’opera di narrativa, anche se la attraversa. Marco, rivolgendosi ai Romani, costruisce un racconto d’azione: Gesù agisce più che parlare. Quello di Marco è un Vangelo di potenza. E la potenza parla anche agli schiavi di Roma. Poi ho dovuto leggere anche gli altri Vangeli. E ho finito per farne una lettura teologica. Non profonda, ma sufficiente per capire l’essenza rivoluzionaria del messaggio. Il Vangelo parla ancora oggi, soprattutto a chi non crede. Mi chiedono spesso: ma tu, leggendo il Vangelo, ti sei convertito? No, non mi sono convertito. Però ora credo molto di più in chi crede. Per me è stato un cambiamento profondo».
Quando ha vissuto questo cambiamento, per esempio?
«Quando sono stato invitato con altri artisti in Vaticano. Francesco aveva subito un’operazione e non pensavo venisse. Invece è venuto, ha parlato e ha fatto un discorso a braccio che ha cambiato il mio modo di concepire l’arte. Ha detto: “Lasciate perdere l’equilibrio, cercate l’armonia. L’equilibrio non fa per voi artisti. L’armonia la trovate nel disequilibrio.” È stata una vera masterclass. Ha parlato da artista ad artisti».
Per concludere: qual è per lei il significato di “post-cristiano”, utilizzato nella descrizione dell’evento con De Kesel al Salone del Libro. E quale dovrebbe essere oggi il ruolo della Chiesa, in questo senso?
«Quando sono andato all’inaugurazione dell’anno accademico della Facoltà Teologica di Bologna ho visto sacerdoti con i calli alle mani, perché avevano appena finito di spalare fango dalle cantine dopo l’alluvione. Sempre più spesso, negli ultimi anni, ho trovato la Chiesa nei luoghi dove prima c’erano i partiti. Anche nell’accoglienza dei migranti, nel prenderli a casa, ci sono stati. In Emilia-Romagna, ma anche a Palermo, c’erano reti di famiglie che accoglievano davvero. Quindi, la Chiesa oggi è lì. Presente. Operativa. Ma quanto di tutto questo è rappresentato nei discorsi ufficiali?».