venerdì 14 giugno 2013
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Il libro, la scuola e l’iPad. Tre temi di grande attualità che messi insieme diventano un problema delicatissimo. Anzi, «un territorio in cui vale la pena di utilizzare il principio di precauzione. Tanto più che i primi studi sul campo, effettuati nei Paesi dove il tablet è già stato introdotto, non forniscono risultati propriamente positivi». Il filosofo Roberto Casati è direttore di ricerca alla Scuola Normale Superiore di Parigi. Lui per primo tiene a precisare di non essere un "anti-digitale", ma di essere favorevole alle nuove tecnologie. Lo ricorda anche nel suo ultimo libro, edito da Laterza, Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere (pp. 130, euro 15). Però, sottolinea, «non si può pensare di introdurre l’uso dell’iPad nelle scuole senza sperimentazione e senza valutazione: non è serio. Perché si vuole fare adesso con l’iPad ciò che non si è mai fatto prima?».La domanda se l’è fatta lei. E per risposta viene da pensare a ragioni commerciali.«Nelle motivazioni per il Decreto Sviluppo il ministro Profumo sottolinea che si tratta di un settore che è arretrato e si deve sviluppare. Mi sembra che il riferimento commerciale non sia per nulla velato. C’è anzi una forte richiesta in questa direzione».Lei ritiene che l’iPad a scuola sia diseducativo?«Il primo problema non è che vengano introdotti oggetti che si dice siano educativi e utili, ma che lo si faccia senza un progetto educativo. Senza considerare che quando si dice iPad ci si indirizza su una marca precisa. E l’iPad è il terminale di una smisurata catena commerciale. I tablet sono oggetti commerciali. Ed è in qualche modo stravagante che si vogliano introdurre a tutti i costi oggetti che sono stati pensati per essere la vetrina di un gigantesco negozio che vende contenuti».E le «app» si pagano.«Si pagano e quindi ci sarà chi ha maggiori disponibilità e potrà averne più di altri. E questo è di per sé un problema».E poi, dai dati che illustra nel libro, si evince che l’introduzione del tablet non porta a migliori risultati di apprendimento.«Sono dati inquietanti. I miglioramenti nei risultati scolastici, quando ci sono, si hanno solo per quegli studenti che già leggono molti libri e hanno una adeguata preparazione alla lettura. Negli altri casi si registrano peggioramenti. Da un’analisi di Marco Gui della Bicocca emerge chiaramente che i risultati scolastici migliorano all’inizio, poi, più l’uso delle nuove tecnologie cresce, più diminuiscono i vantaggi».Qual è il motivo?«È nel fatto che le nuove tecnologie creano dispersione e non facilitano l’apprendimento. Quelli che le vogliono introdurre a tutti i costi nella scuola (io li chiamo i colonialisti del digitale) sostengono che i nativi digitali sono già capaci di fare multitasking. Ma si tratta di una vera fandonia. Il nostro cervello è in grado di fare solo una cosa alla volta in maniera cosciente e fruttuosa. Passare con frequenza da un argomento (task) all’altro è molto costoso in termini di minore apprendimento».L’esatto contrario di quello che dovrebbe essere il compito primario della scuola.«Se la scuola servisse solo ad acquisire informazioni sarebbe praticamente inutile. Il vero valore aggiunto della scuola è di insegnare a formarsi e a migliorare un nostro modo di lavorare, di focalizzare l’attenzione sulle cose che contano e di rendere utile le nozioni che abbiamo appreso. E in questo la scuola potrebbe fare molto di più».Si riferisce a qualcosa in particolare?«La necessità di imparare a maturare un metodo di studio efficace per la nostra formazione implica che a dover essere valorizzati sono gli insegnanti, non le tecnologie. In questo senso sarebbe più produttivo investire i soldi dei tablet per valorizzare e migliorare la professionalità del corpo docente. E poi c’è un settore essenziale che è quello della lettura».Il problema di sempre.«Perché è essenziale che la scuola insegni a comprendere e a elaborare testi complessi. Non quelli di 140 caratteri dei tweet o delle poche righe delle notizie su internet. Per lo stesso futuro della nostra democrazia è necessario creare nei giovani la capacità di lettura approfondita, altrimenti la gran parte del nostro futuro corpo elettorale resterà nell’incapacità di formarsi un’opinione consapevole e autonoma. In questo la scuola sta sbagliando perché considera la lettura una cosa da fare a casa. Ma le indagini dicono che la grande maggioranza di coloro che leggono a casa sono figli di genitori che leggono molto, in particolare la madre. È l’aristocrazia della lettura. Per non dire del voto on-line».Il voto on-line?«C’è chi lo propone come una conquista della democrazia, ma il voto fatto nel privato di un’abitazione o di un ufficio può diventare il trionfo del condizionamento. Pensiamo solo al padre di famiglia o al capoufficio che impongono le loro scelte...».Insomma: sì alle nuove tecnologie ma con intelligenza e ponderazione?«La tecnologia digitale è essenziale. È una grande evoluzione. Ma in questo momento i colonialisti del digitale sono alla ricerca di tutte le nostre risorse mentali disponibili per sfruttare commercialmente nuovi spazi del nostro cervello. Forse è arrivato il momento in cui è necessaria la stesura di un "manifesto per la difesa della nostra vita mentale", così come negli anni ’70 il Club di Roma fece il Manifesto sui limiti dello sviluppo, sostenendo che il pianeta ha dei limiti che non possono essere valicati. Ecco, ogni cosa che cerca di erodere le nostre risorse mentali dovrebbe essere negoziata».
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