martedì 18 febbraio 2014
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Four kids keep me laughing! «Quattro fi­gli mi tengono allegra» si legge sull’ac­count twitter di Mariana Mazzucato, a dimostrazione di quanto sia possibile conciliare carriera e famiglia. Se ne è an­data dall’Italia a cinque anni per seguire il papà padovano, che era fisico nuclea­re a Princeton, e da allora vive nel mondo anglosas­sone (attualmente è full professor in economia del­l’innovazione all’Università del Sussex in Gran Breta­gna). Da poche settimane è uscito il suo libro più im­pegnativo - The Entrepreneurial State. Debunking Pu­blic vs. Private Myths in Risk and In­novation (Lo Stato imprenditore. Il mito della contrapposizione 'pub­blico- privato' in tema di rischio im­prenditoriale e innovazione), Anthem Press, che in primavera verrà tradotto da Laterza. Di cosa tratta? Delle migliori esperienze d’in­vestimenti pubblici, in grado d’atti­vare le energie più vitali e stimolare la crescita. Il libro parla soprattutto degli Stati Uniti e delle loro politiche in tema di sviluppo, mettendo in e­videnza l’importanza del contributo pubblico nel suc­cesso di colossi come la Apple: a giudizio dell’autrice, infatti, senza ingenti investimenti governativi (so­prattutto federali) non ci sarebbe stato il riconosci­mento vocale Siri, gli schermi touch, il Gps, e molto altro ancora. Del resto Internet stesso, in origine, era una rete mili­tare: lo sanno tutti, ma spesso ce lo dimentichiamo. «Il motore di ricerca di Google - annota l’autrice - de­riva da un progetto della Nsf, la National science foun­dation, che negli Stati Uniti corrisponde grossomodo al Cnr italiano. Così come la maggior parte dei far­maci più efficaci negli Usa nascono dal lavoro del Na­tional institutes of health (detto fra parentesi, lo Sta­to in America spende 32 miliardi di dollari all’anno in ricerca applicata alla medicina)». Naturalmente le politiche per lo sviluppo devono es- sere diverse a seconda dei contesti economici: nelle economie occidentali, sono efficaci le ricette a eleva­to contenuto tecnologico (i cosiddetti settori capital intensive) perché il costo del lavoro è molto più ele­vato che nelle economie emergenti, che, per ragioni speculari, possono agire sulle filiere labour intensive e sui fattori di dumping salariale. Ma questa non è materia controversa; si discute in­vece sull’opportunità e sugli effetti reali dei tagli alla spesa pubblica, e sul punto la Mazzucato ha idee di­verse dai guru liberisti: «Non a caso 'Forbes', la rivi­sta finanziaria più glamour, mi ha definita eretica» di­ce sorridendo dalle pagine del suo blog. Tuttavia le sue posizioni non sono proprio solitarie: uno studio del Fondo monetario internazionale, pubblicato nel dicembre 2012, ha messo in evidenza (e quantifica­to) gli effetti recessivi della politiche dell’austerità nei paesi Ocse. Infatti, parlando di politiche per lo svi­luppo troppo spesso si porta l’attenzione unicamen­te sulla pressione fiscale, che naturalmente ha la sua importanza. Ma non è l’unica cosa importante: co­me spiega in modo convincente Entrepreneurial Sta­te, lo è in pari misura (e forse superiore) la 'qualità' della spesa pubblica. Gli Stati Uniti hanno degli interventi pubblici molto bassi in campo sociale; non è altrettanto noto, inve­ce, la mole degli sforzi pubblici nelle politiche indu­striali. La tesi del libro è che questo sia d’importanza decisiva nel successo economico americano: esserne consapevoli dovrebbe essere il driver delle politiche anti-congiunturali di cui hanno bisogno le nostre e­conomie in questo momento. «Ne sono tanto con­vinta - dice ancora la Mazzucato - d’aver proposto al governo inglese in carica, di cui sono consulente, d’in­trodurre incentivi allo sviluppo come quelli america­ni, con il vincolo però di trattenere, per via fiscale, u­na quota dei profitti che ne derivano per destinarli di nuovo alla spesa in ricerca scientifica e capitale uma­no. Gli Stati Uniti invece hanno socializzato il rischio dell’innovazione e privatizzano i profitti: in Europa non dobbiamo commettere lo stesso errore». E veniamo allora alla questione cruciale: dalla lettura di questo volume si possono desumere le politiche che andrebbero adottate oggi in Italia? Si può rispon­dere affermativamente senza grandi forzature. Senza dubbio, sarebbe profittevole un massic­cio investimento in ricerca: non dimen­tichiamo che il Trattato di Lisbona in­dica il 3% del Pil come soglia 'virtuo­sa' per le società europee (l’Italia è ben al di sotto, anche perché ha una spesa pubblica enorme per altre voci e deve al contempo rispettare i vincoli di bi­lancio imposti dall’Europa quanto a deficit pubblico e debito). In parte manca l’apporto pubblico, ma soprat­tutto è inferiore alla media europea il contributo privato alla ricerca. Ciò è dovuto soprattutto alle piccole dimensioni del­le aziende che raramente hanno in sé una divisione 'ricerca & sviluppo'. Su quest’ultimo aspetto si do­vrebbe lavorare per mettere meglio 'a sistema' l’e­sperienza dei parchi tecnologici, che non hanno da­to ancora i frutti attesi. In termini ancora più specifi­ci, si deve sottolineare il ritardo che il nostro Paese an­cora registra nelle misure di agevolazione a favore dei venture capitalists, vale a dire dei 'capitani di ventu­ra' del nuovo millennio, che hanno ottime idee ma non le risorse per realizzarle. Uno Steve Jobs, in Italia, non avrebbe avuto alcuna possibilità di vedere pre­miata dalla sorte il suo talento e la sua disponibilità al rischio. La Silicon Valley è un 'incubatore' in cui na­scono in continuazione cento, mille Olivetti. In Italia ce n’era una, ed è morta in modo molto triste.
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