venerdì 29 aprile 2022
La biografia di Michele Martino rende omaggio a quello che Michael Jordan considera il pioniere dell’odierna Nba. Le magie di Julius sono epiche
Julius Erving, “Doctor J”, a canestro contro Larry Bird

Julius Erving, “Doctor J”, a canestro contro Larry Bird - Getty Images

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Spike Lee, da cineasta baskettofilo, potrebbe filmare da par suo la vita di Julius Erving, ma il regista dovrebbe rimandare all’infinito il fermo immagine su quel gesto unico e irripetibile – almeno per gli altri artigiani della palla a spicchi – e poi titolare questa storia secolare alla Sorrentino: “È stata la mano di Julius”. Nell’altra galassia della pallacanestro, la Nba, ci sono i grandi giocatori, quelli che segnano una stagione o incidono il loro nome nel corso di un’era. E poi ci sono gli “eterni”, categoria rara e protetta dalla memoria collettiva, a cui appartengono i “giganti del basket”. Parliamo dei “rivoluzionari”: i Michael Jordan, i Kobe Bryant, i Kareem Abdul Jabbar. Quest’ultimo, per molti americani innamorati della loro speciale giostra dell’anello, il vecchio occhialuto Jabbar, è stato il simbolo della Nba anni ’80. Ma sull’argomento tempo fa è intervenuto a mano aperta il divino Michael Jordan per ricordare al popolo dei palasport a stelle e strisce che quello scettro di “re degli Ottanta” spetta di diritto a uno che spesso viene ingiustamente “dimenticato” nella golden list: mister Julius “Dr. J” Erving. «“The Doctor”. Fantastico amici!», urlava estasiato Dan Peterson, in quelle telecronache registrate, trasmesse da Canale 5, che noi, figli degli anni ’80, guardavamo con lo stesso stupore con cui i nostri genitori assistettero nel ’69 alla diretta Rai dell’allunaggio. Tra gli astronauti dei Los Angelese Lakers di Jabbar e i Boston Celtics del “big white” Larry Bird, sul pianeta Nba apparve il marziano, il “terzo incomodo”, il genio ribelle Julius Erving. Talento puro, cresciuto sui playground newyorkesi, dove è nato nel 1950. Comincia da lì la sua storia, raccontata per noi italici piangenti di quel basket da Michele Martino, il quale con Il favoloso Doctor J. (66THA2ND. Pagine 416. Euro 19,00) debutta nelle patrie lettere di sport. L’esordio del pioniere del «nuovo basket», avvenne invece al liceo. Il Sessantotto Julius lo fece all’Università del Massachusetts dove vennero avvistate le sue prime schiacciate interstellari.

La fama di schiacciatore gli aprì le porte dei Virginia Squires, team iscritto al campionato professionistico dell’Aba (American Basketball Association). Due anni di apprendistato, prima di tornare a casa e indossare la canottiera dei Nets di New York con cui conquistò due titoli nazionali. Il 1976 fu l’anno dell’annessione dell’Aba all’astro nascente della Nba, così che Erving accettò di trasferirsi ai Philadelphia 76ers. Una fortuna per Philadelphia, perché il Doc era deciso a rimanere nei paraggi del suo quartiere, East Meadow, e firmare per i New York Knicks che presero il più grande granchio della loro storia: rifiutarono Erving. Così Julius trasferì a Philadelphia i suoi imperiosi 201 centimetri (su 93 chilogrammi) e quel fisico statuario, tutto muscoli e fosforo, divenne la più grande attrazione dello “Spectrum Arena”. La tana da 18mila posti dei Sixers divenne la sua seconda casa per 11 stagioni da formidabili quegli anni.

Nel tempio di Philadelphia esiste un “a.Julius” e un “d.Erving”, perché appena arrivato il Profeta della Grande Mela, nel ’77, i Sixers riassaporarono il gusto di una finale Nba. L’ala piccola Julius ai play-off schiantò i Boston Celtics, il miglior quintetto di quegli ultimi spiccioli di anni ’70, ma poi in finale si dovette arrendere ai Portland Blazers. Vicecampione d’America, ma era nata una stella, gloria dei Sixers e gioia degli sponsor che se lo contendevano a suon di dollari. Il sorriso di Erving sotto quella cascata di ricci da ragazzo del ghetto divenne lo spot universale della Nba. I nemici di Doctor J. – non molti per la verità – lo bollarono invece come un “perdente di successo” quando si lasciò sfuggire di mano le finals del 1980. Sconfitto ancora dai Lakers. E questo è l’incipit del corposo “docubook” di Martino, che però sorvola sull’ennesima débàcle finale di Philadelphia e punta i riflettori sulla “magia” del suo condottiero con la mitica n.“6”. In diretta tv (in onda sulla Cbs) la seconda domenica di maggio – festa della mamma – i tifosi dei Sixers con tanto di striscione ringraziavano la madre di Erving per avergli regalato Doctor J. La gara-4 Philadelphia- Los Angeles diventerà epica per un colpo uscito dal suo cilindro senza fondo.

Con una presa chirurgica Erving superava quattro montagne umane in canotta gialloviola. Gesto che Martino traduce in letteratura: «Erving descrive un cerchio in aria con il braccio, come un giocatore di pelota basca, in cerca di una soluzione. Vorrebbe servire Dawkins, che immagina di trovare libero dietro Jabbar. Ma Dawkins non c’è. Allora continua a fluttuare fino all’altro lato del tabellone, dove lo aspetta Chones. Riesce ad anticiparlo e a tirare prima di rimettere i piedi sul parquet, inciampare su una scarpa di Chones e rotolare a terra. Un uomo al tavolo dei segnapunti dirà che dalla sua prospettiva Erving era completamente scomparso dietro una muraglia di corpi. Poi, dopo un tempo che sembrava misurabile in secondi, era apparsa una mano… la mano di Julius, che con una frustata di polso (la spinta delle gambe e la rotazione del braccio erano ormai esaurite) aveva scagliato la palla in alto, imprimendo l’effetto giusto perché sfiorasse dolcemente il vetro e scivolasse dentro il canestro».

L’America rimase a bocca aperta per quel «sottomano» che sfuggiva ad ogni possibile catalogazione. «Mai visto nulla di simile», borbottavano basiti gli stregati dalla lunetta, seduti sul divano di casa con birra o coca-cola fluttuante. Il giovane Martino scuote i nostalgici, specie i più attempati telespettatori di quel match, ricordando loro che Doctor J. quel colpo l’aveva in repertorio dal «lontano 1971» e «di giocate così ne faceva ogni sera, più d’una a partita». Julius era stato il primo vincitore dello Slam Dunk Contest, la gara delle schiacciate ideata dalla Aba, e questo lo sapevano tutti, ma ciò che ignoravano era il nome da dare a quella sua trovata. Il dibattito coinvolse l’intera stampa americana che passò dal «for J. layup» al più comunemente accettato «the shot». Una danza jazz quel movimento che ispirò il sax di Grover Washington Jr che ispirato gli dedicò il brano Let it flow. Era la prima volta che un cestista, per di più afroamericano, usciva dal parquet per farsi arte. Il regista Gilbert Moses, chiama Erving a recitare da protagonista nel suo film Basket music. La mano di Julius ispirava pittori, graffitari, poeti di strada e perfino la prima ondata rapper. Andre Romelle Young, divenne Dr Dree, con quel Dr che è un chiaro omaggio al suo idolo Dr J. che lo accompagnerà nella sua carriera di cantante rap e poi di produttore di fenomeni come Tupac, Snoop Dogg ed Eminem. Tutto questo per un campione che ha vinto molto meno rispetto al patrimonio atletico e agonistico che ha messo in campo.

I quattro premi di Mvp, tre titoli di capocannoniere e tre anelli su sei finali giocate, non sono numeri da recordman. Ma il fatto che con Wilt Chamberlain e Jabbar è nel ranking di tutti i tempi per i 30mila punti realizzati e i 10mila rimbalzi lo rende sicuramente speciale, anche se per battere gli acerrimi rivali dei Lakers e conquistare il primo titolo Nba ha dovuto attendere l’arrivo della spalla ideale Moses Malone. Attenti a quei due, Erving-Malone, punirono finalmente Jabbar e compagni con un secco 4-0 nella finale dell’83. E a quel punto il genio capì che era il momento di fermarsi. La sirena del ritiro definitivo suonò nel 1987. L’ultima stagione a Philadelphia fu un tour per i palazzetti degli Usa per salutare i suoi tanti amatori, commossi fino alle lacrime alla cerimonia del ritiro della maglia n. “6” dei Sixers. La rivoluzione di Erving era compiuta in favore delle nuove generazioni alle quali oggi, da saggio imprenditore e uomo tra i più ascoltati d’America, ricorda: «Se i giovani non vanno oltre quello che i “vecchi” hanno raggiunto, allora vuol dire che il sistema non sta funzionando».

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