venerdì 17 aprile 2020
Leggere il Signore degli Anelli nei giorni del virus. La Compagnia dell'Anello si forma attorno alla condivisione del passato e dei destini. Inizia un cammino comune nel pericolo, sola via di speranza
“Un Anello per domarli, un Anello per trovarli...”

“Un Anello per domarli, un Anello per trovarli...” - Pau Llopart Cervello/Pixabay

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Sindaci e poliziotti costretti a richiamare concittadini che in barba alle regole si aggirano per le strade della città pensando, in fin dei conti, di fare una bravata da poco. Abbiamo fatto il pieno di simili scene nelle scorse settimane, anche se gli elicotteri della polizia respinti coi fuochi di artificio non erano effettivamente pronosticabili. Eppure dovrebbe essere ormai chiaro che l’obiettivo comune, proprio perché comune, si può raggiungere solo collaborando. Così, ai piani alti, l’idea di Unione Europea sembra svuotarsi di significato, se non si è capaci di superare l’interesse nazionale soccorrendosi a vicenda, tenendo a mente che il bene di un paese è inevitabilmente legato a quello di tutti gli altri.

Ci siamo riproposti, in tempo di virus, di farci guidare da Tolkien in un viaggio nella Terra di Mezzo e il nostro cammino può iniziare proprio con qualche spunto sull’importanza dell’agire d’intesa superando inutili individualismi. Forse le riflessioni più significative a riguardo possono essere suggerite da un episodio centrale di La Compagnia dell’Anello: il consiglio di Elrond, in cui si ricostruisce la storia dell’anello e si decide come affrontare la minaccia che incombe sulla Terra di Mezzo.

Per la dimora di Elrond il mezzelfo, Rivendell (Gran Burrone o Valforra, nelle traduzioni italiane), Tolkien probabilmente si lasciò ispirare da Lauterbrunnen, in Svizzera, dove si recò nel 1911. Una rapida ricerca online vi permetterà di ammirare una magnifica vallata incorniciata da montagne maestose. Ma Rivendell non è solo un luogo di bellezza e quiete. “Il tempo non sembra passare qui: semplicemente, è” (traduzione mia, come per tutte le altre citazioni). Sono le parole di Bilbo, che Frodo e compagni ritrovano, con grande sorpresa, proprio a Rivendell. La dimora di Elrond è il luogo in cui il tempo non solo è sospeso, ma diventa anche una dimensione in cui sostare, da cui lasciarsi circondare. Una pausa narrativa – dopo le lunghe avventure di Frodo e compagni in fuga dai Cavalieri Neri, al servizio di Sauron – ma soprattutto un presente in cui ricostruire il passato e decidere come affrontare il futuro.

Al consiglio partecipano i rappresentanti dei popoli della Terra di Mezzo. Essi hanno risposto a una chiamata, ma non è stato Elrond a convocarli: piuttosto, le cose si sono disposte in modo tale – dice Elrond – che “fossimo noi che sediamo qui, e non altri, a trovare ora un piano per il pericolo che corre il mondo”. Per capire l’entità della minaccia se ne deve ripercorrere la storia, ma nessuno la conosce per intero: la storia dell’anello, infatti, è un mosaico ed è necessario che ognuno dei presenti contribuisca con la sua tessera, con il suo frammento di verità.

È la prima vera occasione che abbiamo per conoscere meglio l’interiorità dei personaggi ascoltando le loro parole e i loro ragionamenti. Subito emerge una grande diversità, che non è da ricondurre esclusivamente all’appartenenza a una “razza” diversa della Terra di Mezzo. Il primo a prendere parola è proprio Elrond, custode del tempo antico, che ricorda ancora con rammarico la vittoria e la caduta di Isildur, colui che aveva strappato l’anello a Sauron ma poi dallo stesso anello era stato rovinosamente sedotto. Bilbo approfitta del suo turno per fare una pubblica confessione: egli ha mentito ai suoi amici nani sulle circostanze che gli hanno permesso di impossessarsi dell’anello e il consiglio è l’occasione per liberarsi di un peso e ristabilire una versione più autentica dei fatti. Nei suoi brevi interventi, Frodo rivela tutta la sua ingenuità e generosità. Le parole di Aragorn sono nobili, ma testimoniano anche una fermezza risoluta: non tanto quando viene rivelata la sua identità di erede di Isildur, ma piuttosto quando va difeso l’onore e l’operato dei suoi compagni, i rangers (“raminghi” o, curiosamente, “forestali”, nella traduzione italiana più recente).

Emergono quindi, già da poche battute, le caratteristiche del leader, ma anche qualche tormento interiore. Di Boromir colpiscono la testardaggine e l’orgoglio, uniti certamente al coraggio. Fin troppo occupato a dare una certa immagine di sé, poco incline a fidarsi degli altri, si ostina a lungo a pensare che l’anello non debba essere distrutto e possa essere usato per un buon fine. Gandalf parla per ultimo, come conviene a chi più di tutti ha cercato di tessere le trame di questa storia. A fin di bene, ovviamente, ma anche sottovalutando colpevolmente il potere del nemico.

La minaccia comune deve unire, ma c’è molto di più. Nessuno di questi più o meno eroici personaggi può compiere l’impresa. Oltre le diversità e le tensioni latenti, solo questo vario mosaico di difetti e virtù può servire un fine nobile come la salvezza della Terra di Mezzo. Il più piccolo, il più umile porterà l’anello. Ma perché la storia vada avanti, perché per tutti ci sia almeno una speranza di salvezza, è tempo che nasca una Compagnia.

Il criterio per mettere insieme la compagnia è semplice. Oltre a Frodo ci saranno chiaramente Gandalf e il fido Sam, e poi un rappresentate di ognuno dei popoli liberi: Legolas per gli elfi, Gimli per i nani, Aragorn per gli uomini, ma anche Boromir, almeno per parte del viaggio.

Il numero stabilito, però, è nove, perché nove sono i Cavalieri Neri ai quali la Compagnia si oppone. È a quel punto che si levano le voci di due volontari. Non sono prodi guerrieri, ma gli altri due hobbit che, insieme a Sam, hanno accompagnato Frodo dalla contea, Pippin e Merry. Non vogliono abbandonare il loro amico. Elrond li avrebbe rimandati volentieri alla contea, con il compito di mettere in guardia la loro gente sull’entità della minaccia. Gandalf però – lo stesso Gandalf che non vuole che nessun membro della Compagnia sia vincolato da un giuramento, perché la forza del loro cuore deve essere ancora messa alla prova ed ignoto è il pericolo – insiste perché Elrond accetti la proposta degli hobbit: “in questa circostanza è bene fare affidamento sulla loro amicizia piuttosto che su una grande saggezza”. Davanti a una pericolo sconosciuto il saper fare, l’esser forti o saggi, conta solo relativamente. Ben più importante è la capacità di prendersi cura gli uni degli altri, di essere in relazione, di tener saldi i legami.

Con velata ironia, Tolkien osserva che l’unico membro della Compagnia a non essere depresso all’idea del viaggio è Bill. Bill è il pony che viene usato come bestia da soma. Bill non ha paura, perché è naturalmente ignaro di ciò a cui sta andando incontro. Ma elfi, gnomi, uomini e hobbit sono uniti anche dalla tristezza e da un ragionevole timore, senza per questo smettere di sperare. “In questo – dice Elrond – risiede la nostra speranza, se di speranza si tratta. Camminare nel pericolo...”. E così pure noi, anche se ancora non possiamo lasciare le nostre case, “camminiamo” idealmente insieme in questo tempo per tenere viva la speranza e prenderci cura di ciò che ci sta più a cuore.

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