sabato 4 giugno 2016
Intervista a Widad Tamimi, nipote di ebrei fuggiti a New York, figlia di un profugo palestinese, è nata a Milano, vive in Slovenia. Una dimensione plurale confluita nel romanzo “Le rose del vento”: «Le generazioni mettono radici. È importante che la Storia possa essere valorizzata nei singoli».
Scrivere il destino fuori dall'esilio
COMMENTA E CONDIVIDI
Quante generazioni ci vogliono per seppellire un esilio? Custodire nel proprio albero genealogico il peso di fughe e separazioni laceranti è un’eredità troppo pesante per sentirsi liberi e insieme solidi a sufficienza? Domande a cui non è facile dare una risposta, soprattutto se le propaggini delle proprie radici incrociano la storia con la “s” maiuscola, quella che soffia sulle peripezie dei singoli trascinandoli su fronti lontani e perfino opposti. E solo la vita può riannodare fili che parevano destinati a non incontrarsi. Widad Tamimi, nata a Milano nel 1981, è nipote di un nonno la cui famiglia, ebrea, fuggì a New York per sopravvivere alla violenza che divampava in epoca fascista, ed è figlia di un profugo palestinese, nato lo stesso anno della fondazione dello Stato di Israele e di nuovo fuggito dall’occupazione israeliana del 1967. La pluralità fa parte da sempre del suo dna, eppure ricomporre i tasselli del puzzle familiare non è stata mai, per lei, un’operazione automatica. «Mi manca il profumo di una torta, di un arrosto, di un sugo che richiami alla mente l’infanzia e la tavola dei nonni. Mi rigiro le loro peregrinazioni fra le dita in una specie di instancabile rosario», racconta la giovane scrittrice nel suo Le rose del vento. Storia di destini incrociati, dato alle stampe da Mondadori (pagine 271, euro 18,50) a quattro anni da Il caffè delle donne. Nel nuovo lavoro, Tamimi scopre tutte le carte della sua storia passata – che oggi continua in Slovenia, dove vive con il marito e i due figli –, in un’operazione delicata e catartica quanto lieve per il lettore che si trova immerso in un racconto d’amore e di umanità, tra infanzie a piedi scalzi sulle colline di Hebron e pomeriggi scanditi dalle lezioni di pianoforte in una casa dell’alta borghesia triestina. In che modo la storia della sua famiglia ha influenzato la sua? «Un esilio cambia radicalmente anche la vita delle generazioni che vengono dopo. A me sono mancate fortemente le radici, e ne sono andata alla costante ricerca per capire me stessa. La storia universale, infatti, ha una notevole influenza su ciò che noi siamo, ma non è comprensibile quando ci si allontana dai luoghi in cui si è dipanata e dalle persone che ne sono state protagoniste, famiglie divise forzatamente. D’altra parte, come spesso capita con gli eventi traumatici, un esilio porta anche una ricchezza, perché una ricerca costante, così come la pluralità culturale, obbliga a una maggiore profondità». «Quante generazioni ci vogliono per seppellire un esilio?» si chiede nel romanzo. Alla fine è riuscita a darsi una risposta? «C’è un momento in cui l’esilio si riassorbe. Pian piano, ci sono generazioni che riescono a mettere radici. A quel punto, però, interviene il desiderio delle generazioni precedenti di ricordare, di perpetuare la propria identità. L’ho constatato sia nella comunità ebraica sia in quella palestinese: la conservazione di elementi culturali, la nostalgia per la patria… Ritengo importante che i miei figli sappiano di essere non solo sloveni e italiani, ma che la storia possa essere valorizzata nei singoli. Poi, ci sono anche persone che decidono di interrompere i rapporti con le origini, che preferiscono l’assimilazione. Si tratta di una scelta personale, influenzata da molti fattori complessi». Lei incarna una doppia eredità culturale, sociale, religiosa: come ha elaborato questa sintesi, a cui ha unito la cittadinanza italiana e poi l’appartenenza al contesto sloveno? È un’operazione riproponibile a livello sociale? «Si tratta di una sintesi complessa ma possibile, e soprattutto inevitabile nel contesto attuale. Oggi siamo tutti sempre più mescolati: i tempi ci obbligano a muoverci, non necessariamente a causa di conflitti ma anche semplicemente per ragioni economiche o di studio. Ci si trova così a confrontarsi e si è chiamati a sperimentare vie possibili di convivenza. Non c’è alternativa». La scelta di raccontarsi senza filtri nella scrittuanzitutto ra è stata dettata dalla necessità di venire a capo della sua storia? «La scrittura è estremamente terapeutica: per me non è stata del tutto una scelta, nel senso che faccio parte di quelle persone per cui scrivere è una vera esigenza. Se non fosse per la pubblicazione di un romanzo, dunque, lo farei ugualmente, magari in maniera diversa, in forma di diario o di racconto personale. Per quanto riguarda la decisione di inserire nel libro elementi più intimi, è stata successiva rispetto alla stesura del romanzo: ho aggiunto l’io narrante alla fine, perché mi sembrava onesto verso me stessa e verso il pubblico, per chiarire l’origine della decisione di raccontare questa storia». Suo padre, dopo l’esilio, fu migrante in Italia, alla fine degli anni ’60. Che differenze vede tra le migrazioni di allora e quelle di oggi? «Quella di cinquant’anni fa era la migrazione di un’élite culturale: chi partiva, allora, per lo più rincorreva l’opportunità di studiare ed era disposto a qualunque sacrificio pur di ottenere un titolo universitario. Tra questi, qualcuno è tornato in patria ma molti sono rimasti e restano attivi nelle cause politiche e sociali che li riguardano. Quella di oggi, invece, è più una “migrazione della disperazione”: spesso non è scelta, riguarda persone che scappano, da guerre o da una situazione socio- economica insostenibile. È un fenomeno molto diverso anche per i numeri, che comportano minori possibilità di integrazione». Nel libro riflette sulla condizione dei profughi palestinesi, immutata ormai da quasi settant’anni… «L’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi rappresenta un difetto del diritto internazionale. Si configurava come un rimedio temporaneo, quando il diritto richiederebbe una soluzione definitiva: il ritorno o l’integrazione nella nuova patria. Invece, tantissimi palestinesi restano senza passaporto e cittadinanza anche in luoghi dove vivono da almeno tre generazioni. Una distorsione che, tra l’altro, ha causato nuovi drammi nell’attuale crisi siriana: molti più palestinesi hanno rischiato e sono morti nella fuga rispetto agli altri profughi, proprio perché non possedevano un documento». Lei oggi è in prima linea nell’accoglienza a questi nuovi esuli della storia: come giudica la reazione europea all’emergenza? Pensa che il nostro continente abbia perso la capacità di aprire le porte? «Mi sento di operare una netta distinzione tra cittadini e istituzioni. Vedo persone estremamente coinvolte nei soccorsi e curiose della diversità, e invece istituzioni spesso inadeguate, prive di una visione, persino xenofobe. Oggi sono i singoli a fare la differenza, ma è urgente che l’Europa si unisca intorno a un progetto comune. Spazzando via i nazionalismi che, la storia ce lo insegna, sono una grave minaccia per tutti». 
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: