domenica 28 febbraio 2010
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Una delle prime testimonianze sul gioco degli scacchi in Italia è costituita da una lettera che san Pier Damiani, l’anacoreta che Dante incontrerà in Paradiso, allora cardinale di Ostia, scrisse nel 1061 a papa Alessandro II, scagliandosi violentemente contro il gioco, del quale chiese e ottenne la messa al bando. Pier Damiani informava il papa di aver punito un vescovo fiorentino che a causa degli scacchi aveva trascurato i doveri religiosi. All’epoca gli scacchi erano molto diffusi tra il clero (e i nobili); testimonianze certe dicono che grande appassionato fu Gregorio VI (papa dal 1045 al 1047). Nel 1128 san Bernardo di Chiaravalle, emanando le regole per l’ordine dei Templari, metteva gli scacchi al bando. Poi nel 1212 la Chiesa ribadì la proibizione al gioco in occasione del Concilio plenario di Parigi. Nel 1254 il re di Francia san Luigi IX proibì gli scacchi con un’ordinanza al rientro dalla prigionia di 4 anni in Egitto dopo la VI crociata; fu probabilmente solo una reazione rabbiosa, data la grande diffusione degli scacchi tra gli arabi, ma provocò la condanna «ufficiale» da parte della Chiesa in occasione del concilio Biterrense del 1255. Non altrettanto per fortuna avvenne per i libri sul gioco, anche perché si trattava di solito di preziosi codici manoscritti, spesso «pezzi unici» e che utilizzavano gli scacchi come spunto per insegnamenti moraleggianti.  Un tipico esempio è l’operetta Quaedam Moralitas de Scaccario, attribuita da molti a Innocenzo III (papa dal 1198 al 1216), ma molto probabilmente a lui solo dedicata; Innocenzo III resta comunque il primo nome importante nella galleria dei papi scacchisti: sul suo stemma si trova una scacchiera sulla quale è posata un’aquila. Che il gioco fosse comunque diffuso lo si ricava da molti documenti burocratici.Restando nel campo ecclesiastico, un inventario del 1236 segnala nel vescovado di Lucca due serie complete di pezzi. Pezzi e scacchiere sono citati negli inventari di Innocenzo VI, redatti nel 1353; del resto gli scacchi venivano conservati anche nei tesori papali e seguirono i pontefici persino durante il periodo avignonese. Anche il popolo continuava a giocare a scacchi; un’opera importante per la diffusione del gioco fu il trattato del domenicano Jacopo da Cessole, piccolo paese vicino ad Asti; fra Jacopo visse tra il 1250 e il 1325 e la sua opera è nota come De ludo scachorum. Nel libro vengono menzionate le regole del gioco – quelle usate in Lombardia, all’epoca regione leader negli scacchi –, che se non sono totalmente quelle di oggi pure vi si avvicinano molto.  Il libro inizia col racconto dell’invenzione del gioco, ideato secondo fra Jacopo ai tempi del re caldeo Evilmerodach, identificato con Merodach-Baladan che regnò dal 722 al 710 a.C. Ideatore del gioco sarebbe stato un filosofo di corte, il cui nome in lingua caldea era Xerse e in greco Filometor: costui avrebbe inventato gli scacchi per convincere il re ad evitare l’ozio. In pratica fra Jacopo unifica le varie leggende sull’origine del gioco e combatte la teoria secondo la quale gli scacchi sarebbero stati ideati durante l’assedio di Troia. Il frate descrive poi i pezzi come se fossero persone reali e spiega i compiti di ciascuno nella società: il Re deve essere giusto, la Regina casta, gli Alfieri saggi consiglieri, i Cavalieri fedeli, i Vicari del re solidi come «rocchi», cioè torri. Ogni pedone rappresenta una categoria di lavoratori: contadino, fabbro, notaio, mercante, medico, oste... Ai primi del Quattrocento gli scacchi si trovarono coinvolti in manifestazioni pubbliche contro le «Vanità». La domenica 23 settembre 1425, per esempio, san Bernardino tenne a Perugia una predica tanto infuocata che «li homini mandaro dadi, carte, tavolieri, scacchi e simili cose» a bruciare in piazza. E a Siena nel 1426 ancora san Bernardino in una predica affermò che uno dei suoi frati, Matteo da Cecilia, aveva bruciato «duomila settecento tavolieri in uno dì a Barzelona, che v’erano di molti che erano d’avorio, e anche molti scachieri, e convertì molte anime». Ancora: nel 1496 e 1497 Girolamo Savonarola fece mettere al rogo anche gli scacchi in due famosi «bruciamenti di vanità» a Firenze. Che il Savonarola sapesse giocare a scacchi è confermato da alcuni biografi, che riportano il contenuto di una predica tenuta l’8 maggio 1496. La riabilitazione del gioco era comunque imminente. La prima scintilla si ebbe a Firenze, grazie alla dinastia dei Medici; fu Giovanni, figlio di Lorenzo il Magnifico, ad aprire la strada per la revoca della condanna ecclesiastica: fin da giovane grande appassionato di scacchi, Giovanni de’ Medici continuò ad essere un importante mecenate per i giocatori dell’epoca anche quando nel 1513 divenne papa Leone X. In un volume della fine del 1500 si trova questa citazione: «Papa Leone era solito abbandonare la partita quando era inferiore; ciò mostra la sua abilità, poiché egli vedeva molto tempo prima ciò che doveva accadere». Fu grazie all’influsso di Leone X che santa Teresa d’Avila parlò positivamente degli scacchi nel suo Cammino di perfezione, scritto tra 1564 e 1566: «Credetemi, colui che giocando a scacchi non sa dispor bene i pezzi, giuocherà molto male: se non sa fare scacco, non farà neppure scacco matto... Voi certo mi biasimerete nel sentirmi parlare di giochi... Dicono che qualche volta gli scacchi sono permessi; a magior ragione sarà permesso a noi di usarne ora la tattica. Anzi, se l’usassimo spesso non tarderemmo a fare scacco matto al Re divino... A scacchi la guerra più accanita il re deve subirla dalla regina, benché vi concorrano da parte loro anche gli altri pezzi. Orbene non vi è regina che più obblighi alla resa il Re del cielo quanto l’umiltà». Il 14 ottobre 1944 il vescovo di Madrid ha proclamato Teresa d’Avila patrona degli scacchisti.E finalmente, agli inizi del Seicento, il gioco degli scacchi venne dichiarato di nuovo lecito da Francesco di Sales, vescovo di Ginevra, che nella sua Introduzione alla vita devota, scritta ad Annecy nel 1608, controbatte l’editto di Luigi e la condanna del Concilio. Nel capitolo XXXI, «Passatempi e divertimenti e anzitutto quelli leciti e lodevoli», il santo ammonisce: «Bisogna solo guardarsi dall’eccedere, tanto nel tempo quanto nel denaro che si espone, perché se vi si impegna troppo tempo non è più sollievo, ma occupazione; non si solleva né lo spirito né il corpo, ma anzi si stancano e si svigoriscono entrambi». Scacchista fu san Carlo Borromeo, di cui è testimoniato che una volta vinse a scacchi a un cugino 10 ducati d’oro che usò per la vestizione di una monaca. E anche Alfonso Litta, arcivescovo di Milano dal novembre 1652: la sua passione era ben nota, tanto che quando arrivò in città venne appesa a una colonna una scacchiera sulla quale campeggiava la scritta «Ingegno, non sorte», per dire che Litta aveva raggiunto la carica non per fortuna ma per le sue virtù. Nessuno dei pontefici che seguirono Leone X fu per gli scacchi particolarmente importante fino a tempi recenti, salvo il caso di Pio V (1566-1572), noto per aver offerto al famoso giocatore siciliano Paolo Boi detto «il siracusano» un importante beneficio purché indossasse l’abito talare (ma, per la cronaca, il Boi rifiutò). Boi allora era considerato il miglior giocatore al mondo. Anche lo spagnolo Ruy Lopez de Segura era un ecclesiastico e durante il suo apogeo scacchistico entrò nelle grazie di Filippo II, che gli assegnò un vitalizio come «miglior giocatore di scacchi del Cinquecento». Nel 1560 arrivò a Roma per accompagnare il suo vescovo al conclave per l’elezione di Pio IV; approfittando del tempo libero giocò e batté tutti i migliori giocatori italiani. Ideò poi una delle aperture più usate ancor oggi, che nel mondo porta il suo nome e in Italia è nota come «Spagnola». Altro scacchista fu Leone XIII, papa dal 1878 al 1903: giocava abitualmente anche da cardinale a Perugia. Poi Giovanni Paolo I, che pure giocò negli anni Sessanta a Vittorio Veneto. Infine Giovanni Paolo II, sicuramente giocatore in gioventù, all’università di Cracovia e poi in seminario.
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