mercoledì 20 agosto 2014
COMMENTA E CONDIVIDI
Un biglietto omaggio non è necessariamente la prova dell’appartenenza a una qualche casta. Può essere un indizio di tutt’altro genere, specie se a offrire l’ingresso gratuito è l’autore della pièce che va in scena. Se l’autore è Eugène Ionesco, poi, e se la commedia è Il rinoceronte, è davvero il caso di prestare attenzione. Siamo nel 1960, dunque, e il maestro del teatro dell’assurdo insiste perché Denis de Rougemont faccia un salto a teatro per assistere al nuovo lavoro, in buona parte ispirato alla descrizione dell’avvento del nazismo che lo stesso Rougemont aveva affidato al suo Journal d’Allemagne. «Io sono solo e loro sono tutti insieme», aveva scritto da Francoforte nel lontano 1935, sintetizzando in una frase semplicissima il dramma che, nel corso del Novecento, ha appassionato tra gli altri José Ortega y Gasset, Hermann Broch ed Elias Canetti: il fascino tenebroso che la massa esercita sull’individuo, lo sgomento di una resa annunciata, il desiderio irrazionale di appartenere a una struttura disumana che si nutre della nostra umanità. Sì, ma chi era Rougemont? A chiederselo – o, meglio, a chiedercelo – è un giovane studioso, Damiano Bondi, al quale si deve «la prima monografia filosofica» sul pensatore finora pubblicata in lingua italiana. Libro informatissimo e prezioso, questo La persona e l’Occidente (Mimesis, pagine 198, euro 16), e non solo perché Bondi ha potuto consultare l’archivio dei Fonds Rougemont, dal quale provengono molti dei materiali inediti utilizzati nel volume, non ultima la lettera in cui, all’altezza del 1973, il filosofo René Girard dichiara la sua ammirazione e il suo debito nei confronti dell’autore dell’Aventure Occidentale de l’Homme. Chi è Rougemont?, torna a domandare Bondi. Il saggista di talento che sul finire degli anni Trenta riscuote un formidabile successo internazionale con L’Amore e l’Occidente, rivoluzionaria rivisitazione del mito di Tristano e Isotta alla luce dei rapporti fra poesia trobadorica ed eresia catara? Oppure il padre fondatore dell’Europa post-bellica, il sostenitore instancabile di una serie di istanze che vanno dal federalismo culturale all’ecologismo? Entrambe le risposte peccano di incompletezza, lascia intendere Bondi. Rougemont è in effetti uno dei più importanti pensatori del XX secolo, protagonista indiscusso della grande stagione personalista. Anzi, si deve proprio a lui l’unico organico tentativo di “definizione della Persona” mai apparso su una rivista del movimento. Uscì su “Esprit” nel 1934, quando Rougemont aveva 28 anni (era nato a Couvet, nel cantone svizzero di Neuchâtel, l’8 settembre 1906) e si trovava già al centro di un crocevia di relazioni intellettuali che comprendevano Karl Barth ed Emmanuel Mounier, il geniale (e precocemente scomparso) Alexandre Marc e l’assai meno simpatetico Jean-Paul Sartre, che in sostanza si impossessò del concetto di engagement coniato da Rougemont con tutt’altro intento. Quello, cioè, non di uno schieramento partitico, ma di una radicale “incarnazione” dell’attività intellettuale (Pensare con le mani è, non a caso, il titolo del saggio al quale Rougemont lavorò in parallelo a L’Amore e l’Occidente e di cui Bondi ha curato per Transeuropa l’edizione italiana).Figlio di un pastore calvinista e fautore del dialogo ecumenico nonostante il permanere di un certo pregiudizio verso la Chiesa di Roma, il Rougemont che ci viene restituito da La persona e l’Occidente è in primo luogo un pensatore cristiano, così come tutta interna alla tradizione cristiana – da Lutero a Kierkegaard passando per Dostoevskij – è la genealogia rivendicata da “Hic et Nunc”, la rivista che Rougemont concepisce nel 1932 come controparte protestante della cattolica “Esprit”. Fra i ritrovamenti più interessanti esibiti da Bondi c’è inoltre un appunto degli anni Settanta in cui l’autore scandisce i tre momenti fondamentali della “logica interna” al proprio pensiero. Si parte dall’acquisizione cristiana per cui la persona (termine anche teologico, segnatamente trinitario) supera e completa la nozione greca di individuo e quella romana di cittadino. Ma la vocazione della persona non ha modo di realizzarsi se non nell’incontro con l’altro, e cioè nella comunità, di cui il matrimonio, patto di fedeltà tra i coniugi, rappresenta l’espressione aurorale. La tappa successiva comporta il costituirsi di una rete di federazioni che rappresentano l’esito politico della riflessione di Rougemont, secondo un’articolazione che esclude ogni chiusura localista e poggia semmai sulla piena applicazione del principio di sussidiarietà.Entra qui in questione l’europeismo di Rougemont, per il quale il riconoscimento delle “radici cristiane” non va nella direzione della rivendicazione identitaria, ma recupera gli elementi di diversità e complessità costitutivi, ancora una volta, del realismo evangelico. Quando muore, il 6 dicembre 1985, Rougemont ha sulla scrivania una decina di libri ancora in lavorazione, tra i quali spicca il trattato – a lungo annunciato e mai portato a termine – nel quale allo “scopo” viene riconosciuto il compito di porsi a fondamento della morale. Impresa concettualmente ardua, ma come osserva acutamente Bondi il personalismo si era dato l’obiettivo «di difendere una realtà, prima ancora di definirla». Per questo l’impresa di Rougemont è rimasta incompiuta e per questo, oggi, chiede di essere rivalutata in tutta la sua vastità. E perfino nelle sue contraddizioni.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: