martedì 28 dicembre 2010
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Rosmini fu il rappresentante più autorevole in Italia di quel cattolicesimo liberale moderato che credeva nelle libertà moderne, ritenendole compatibili con i princìpi insegnati nel Vangelo. Anzi riteneva tali libertà indispensabili per rifondare in Europa l’ordine politico e per ridare nuovo slancio alla vita cristiana. Secondo gli intransigenti, che nella Chiesa di quel tempo rappresentavano la corrente maggioritaria, tutto il pensiero moderno era inquinato di «marcio razionalismo» ed era bollato come ereticale in quanto ritenuto fomentatore di ateismo e di ogni tipo di disordine sociale. Per essi il modello ideale di società politica era quello dell’ancien régime, fondato sull’alleanza fra trono e altare, mentre in campo religioso sostenevano un’ecclesiologia (marcatamente antigiansenista) che escludeva categoricamente ogni intervento dei laici nella vita interna della Chiesa. In ogni caso il liberalismo cattolico nella sua versione più moderata proposta dal Rosmini riuscì un poco alla volta a guadagnare alla causa delle libertà moderne una parte degli intellettuali cattolici italiani. All’estero, soprattutto in Francia e in Belgio, il movimento era molto battagliero e impegnato in lotte politiche in difesa del cattolicesimo, contro governi laicisti che volevano emarginare la Chiesa e ridurre la religione a un fatto privato. Il liberalismo cattolico ebbe però in Italia caratteristiche proprie rispetto ai movimenti cattolici d’Oltralpe: mentre questi invocavano le libertà costituzionali come mezzo di riconquista cristiana della società, che andava gradatamente secolarizzandosi, in Italia invece esse furono invocate come tutela della persona umana e come condizione per un rinnovamento della società politica e della Chiesa, nonché per risolvere in modo compatibile con la tradizione cattolica nazionale la questione romana. È in questo clima culturale che il Rosmini scrisse (a partire dal 1832) e successivamente pubblicò (1848) l’opera sua più celebre: Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, che attirò su di lui e sui suoi scritti critiche severe da parte dei suoi avversari, in particolare i gesuiti romani. Con quest’opera il sacerdote roveretano non solo denunciava in modo preciso e puntuale – sebbene senza mai allontanarsi da quella «carità intellettuale» che attraversa tutta la sua opera – «i mali attuali della Santa Chiesa», indicandoli come «piaghe»; ma allo stesso tempo ne indicava anche i rimedi possibili e auspicabili. Intanto già il titolo sembrava a molti suoi critici audace e irrispettoso dell’autorità e santità della Chiesa. In realtà il Rosmini in questo aveva semplicemente ripreso, come egli stesso più volte confessò, una «figura» che papa Innocenzo IV, sulla base di indicazioni patristiche, aveva utilizzato nel discorso di apertura del Concilio di Lione del 1245. Il pontefice in quella sede infatti aveva paragonato la Chiesa al Cristo in croce, dimostrando «com’ella, a suo tempo, fosse di cinque acerbissime piaghe addolorata». «Se quel gran Papa – scriveva il Rosmini a un suo amico – trattò delle cinque piaghe della Chiesa in un Concilio ecumenico, non so come ora si possa ridire su questo titolo». In verità ciò che indisponeva i suoi critici era il fatto «che un uomo senza giurisdizione [componesse] un trattato sui mali della Chiesa», mentre tale sollecitudine per la Chiesa di Dio spetterebbe «di diritto ai pastori della medesima», perché essi soltanto ne conoscerebbero i rimedi necessari. Nell’introduzione all’opera l’autore a tale proposito scriveva: «Io non pronunciavo con intenzione di decidere cosa alcuna, ma intendevo anzi, esponendo i miei pensieri, di sottoporli ai pastori stessi e principalmente al Sommo Pontefice, i cui venerati oracoli mi saranno sempre norma e diritta e sicura, alla quale ragguagliare e correggere ogni mia opinione». Nonostante la prudenza dimostrata dal Rosmini nel trattare di un argomento così spinoso come quello della riforma della Chiesa – che fino a qualche tempo prima aveva alimentato in Italia la controversia giansenista – il libro fu messo all’Indice il 30 maggio 1849 insieme a un’altra importante opera del roveretano, La Costituzione civile secondo la giustizia sociale (1848), con la quale egli auspicava importanti riforme sociali in ogni Stato. In essa, inoltre, contrapponendosi a molti cattolici del suo tempo, criticava la teoria della religione di Stato in nome della libertà di coscienza, che deve essere inviolabile e riconosciuta ad ogni uomo. Sul tema della libertà della Chiesa scriveva: «La religione cattolica non ha bisogno di protezione dinastica, ma di libertà; ha bisogno che sia protetta la sua libertà e non altro». Il Rosmini si sottomise prontamente al pronunciamento dell’Indice. «Coi sentimenti del figliolo più devoto ed ubbidiente alla Santa Sede – scriveva alla Congregazione romana il 15 agosto 1849 – quale per grazia di Dio sono sempre stato di cuore e me ne sono anche pubblicamente professato, io le dichiaro di sottomettermi alla proibizione delle nominate operette puramente, semplicemente, e in ogni miglior modo possibile». La condanna incoraggiò i gesuiti romani neotomisti, per sferrare un attacco frontale e duro contro il sistema filosofico-politico del Rosmini. Tale controversia, che purtroppo talvolta degenerò anche in attacchi personali, fu capeggiata da padre Antonio Ballerini, a quel tempo professore di morale al Collegio Romano, uomo «di notevole vigore intellettuale, ma fortemente polemico e poco prudente». Questi pubblicò un libello anonimo – senza indicare né il luogo né la data di pubblicazione – intitolato semplicemente Postille, nel quale si censuravano con un linguaggio violento e talvolta irrispettoso molte tesi del Rosmini, il quale era ingiustamente accusato di insegnare «le più solenni eresie; errori inauditi intorno alla Chiesa, alla gerarchia ecclesiastica, alla preghiera, ai sacramenti, all’incarnazione del Verbo, alla natura e operazioni della Grazia, al peccato originale e alla concupiscenza» e molte altre cose ancora. Lo scritto si diffuse dappertutto in Italia, creando sconcerto tra il clero e gli intellettuali cattolici; cosicché 18 vescovi denunciarono l’opera anonima alla Congregazione dell’Indice perché la esaminasse. Nonostante il parere negativo di questa, si preferì, per non indebolire il fronte antiliberale, e pare su richiesta di Pio IX, di non procedere alla censura. L’opera del Ballerini fu criticata, non solo dagli amici e sostenitori del Rosmini, ma anche da non pochi cattolici intransigenti, soprattutto per la durezza del tono e per la violenza degli attacchi scagliati non soltanto contro le tesi del roveretano. Il Papa stesso se ne lamentò con l’autore durante un’udienza privata. Va sottolineato, inoltre, che non tutti i gesuiti italiani erano d’accordo con le tesi del loro confratello, tanto meno con il suo modo esageratamente polemico di condurre la controversia. Poco dopo questo fatto il Ballerini discretamente uscì di scena.
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