domenica 25 novembre 2018
Sfogliando la storia di questo genere di «rottura» si scoprono le radici bibliche di molti testi. Un viaggio attraverso le voci e i brani più famosi in un libro di Granieri e Miele
Anche il rock ha la sua anima metafisica
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Che cos’è il rock? Non è facile dare definizioni di un fenomeno così complesso e contraddittorio, non compatto e coerente. È una forma di espressione musicale che dalla metà degli anni ’50 è in continua evoluzione. È un fenomeno eclettico, risultato di una mutevole combinazione di forme musicali che si sono sviluppate in modo autonomo. Una cosa è certa: il rock ha avuto sin dai suoi inizi la capacità di farsi interprete dei sogni, delle aspirazioni e dei malesseri dei giovani. Ha convogliato tensioni, anche violente, ma certamente profonde. Il suo è un linguaggio di potenza. Già la definizione di rock ’n roll evoca l’immagine di una roccia ( rock) che vibra, è instabile, crolla e rotola. Forse la migliore definizione l’ha data Manzoni nel suo inno sacro Il Natale: «Qual masso che dal vertice/ di lunga erta montana,/ abbandonato all’impeto/ di rumorosa frana,/ per lo scheggiato calle/ precipitando a valle,/ batte sul fondo e sta…».

Che cosa «spacca» questo masso? Cosa intende abbattere? Barriere, muri. Certamente. È un canto di liberazione. Nasce da una reazione. È musica di rottura perché dà voce a una energia vitale che vuole smuovere, far rotolare pietre che soffocano. È una tensione di liberazione da un io irretito, chiuso in se stesso, privo di rinvii significativi. La musica e i suoni del rock possono ben esprimere una lacerazione, una drammaticità, anche una ribellione profonda che va letta con cura. Un esempio: in Slow Train, in maniera lapidaria, Bob Dylan si oppone a far parte di quella umanità che ha perso il senso della realtà e della relazione con il creato e con il proprio simile, ormai dominata dal desiderio di possedere e accumu-lare: «Gente affamata e assetata / silos stanno scoppiando di grano / sai che costa di più stipare il cibo / piuttosto che darlo da mangiare». Questi versi richiamano la Scrittura e precisamente la parabola, presente nel Vangelo di Luca (12, 13-21) sulla cupidigia del ricco che pensa di demolire i propri magazzini per costruirne di più grandi, non sapendo che proprio in quel momento la vita lo abbandonerà. Dylan riflette su quest’inclinazione da parte dell’uomo che è diretta a “cosificare” la vita stessa, in modo tale da essere considerata merce di scambio, comprata e venduta.

Molti autori rock riflettono su quest’inclinazione che trascura completamente il valore della coscienza, della libertà e della dignità umana. Il rischio è lì in agguato ovviamente: il narcisismo, l’ideologia, una generica e dionisiaca ricerca di liberazione vaga e a volte distruttiva. Una volta avvenuta una liberazione cosa resta dopo? A volte il vuoto. In questo caso l’energia vitale liberata si ritorce contro se stessi e si può arrivare anche alla morte, al suicidio, certo. Resta però troppo facile l’etichetta «droga, sesso e rock ’n roll». Si impone un attento discernimento, cioè di analisi dell’anima. Secondo Ignazio di Loyola ciò che sazia l’anima non è tanto il conoscere, quanto il gustare interiormente. Ed è proprio questo che fanno Massimo Granieri e Luca Miele in questo volume ( Il vangelo secondo il rock). Leggendo i ritratti che hanno firmato si ha la chiara percezione che qui c’è un patto biografico con la musica intesa come riserva di senso, di domanda. Si percepiscono scorrendo le pagine passioni e attriti, sintonie e dissonanze degli autori, che non si nascondono dietro il discorso critico. Tutt’altro: c’è la loro vita dentro quelle pagine.

Gli autori sembrano raccontare un po’ di loro stessi. Ma si avverte soprattutto un’ermeneutica cristiana, dove il vangelo plasma e amplifica la capacità di ascolto musicale. Ma accade pure che la musica diventa l’ambiente che permette un ascolto penetrante del vangelo. Non solo: il rock è anche «figlio» del vangelo, della Bibbia, come Granieri e Miele ci aiutano a capire. Parole, immagini, contesti dei testi rock hanno radici bibliche. Dylan una volta ha detto: «la Bibbia attraversa tutta la vita degli Stati Uniti, che la gente lo sappia o no. È il libro fondante. Il libro fondante dei padri, in ogni caso. La gente non può sfuggirle. Dovunque vai, non puoi sfuggirle». E dicendo questo parlava ovviamente anche di sé. Scopriamo la Bibbia come strada di accesso all’ascolto profondo del rock, dunque.

La Bibbia si conferma il «grande codice» della letteratura occidentale. La stessa lingua inglese quotidiana ha preso forma in buona parte sotto l’influsso della traduzione King James delle Sacre Scritture. Da essa proviene la musicalità di termini, modi di dire e metafore rock. Spesso, tra l’altro, filtrate dalla grande letteratura – da John Steinbeck a Flannery O’Connor – o anche registi – da John Ford a Terrence Malick. Il rock ha dato voce a molte esistenze rotte dalla miseria e dalla violenza, innalzandole con poesia e delicatezza; il rock ha saputo preferire l’amore al potere, la pace alla guerra, il dialogo al monologo; ha provato ad indagare lo spirituale, innalzandosi verso i cieli, ma stando con i piedi radicati in quella terra che a volte è arida e dura. How many roads must a man walk down… «Quante strade deve percorrere un uomo / prima che lo si possa chiamare uomo? […] e quanti anni devono vivere alcune persone / prima che possano essere finalmente libere? […] Quante volte un uomo deve guardare verso l’alto / prima che riesca a vedere il cielo?».

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