sabato 8 settembre 2012
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​Berretto in testa e gilet di cuoio nero, Peter Bichsel si presenta all’appuntamento con la prevedibile puntualità di un cittadino della Confederazione elvetica. Peraltro anche l’estro, l’indipendenza di giudizio, l’umorismo sottile e rivelatore appartengono alla tradizione letteraria della Svizzera tedesca, rappresentata da scrittori tenacemente "irregolari" come Dürrenmatt, per esempio, o Max Frisch, che di Bichsel fu amico fraterno. Oggi, all’età di 77 anni, l’autore di Quando sapevamo aspettare (tradotto un paio di anni fa da Comma 22, che ha da poco riproposto il classico Il lettore, il narrare nella nuova versione di Anna Ruchat) è forse il più anticonformista fra gli ospiti del Festivaletteratura. Uno che proprio non ce la fa a ragionare in termini astratti e per ogni domanda rilancia con una risposta in forma di storia.«È vero, sono uno scrittore che si esprime attraverso testi brevi – dice quando lo si interpella sul suo stile –, ma anch’io mi sono cimentato in un grande romanzo. Avevo otto anni e non sono mai andato oltre le prime due pagine. Non si può chiedere a uno scrittore di agire contro se stesso. Sarebbe come pretendere che un violinista si metta a suonare la tromba, adducendo il pretesto che sempre di musica si tratta. Fosse per me, mi dedicherei alla poesia e nello stesso tempo ai romanzi fluviali, ma alla fine non posso fare a meno di scrivere quello che ho sempre scritto. In effetti sono un pigro e scrivo poco per assicurare a noi pigri il diritto di essere scrittori».Lei non ha mai apprezzato le cosiddette "storie vere", ispirate a episodi reali…«In letteratura è vero ciò che funziona dal punto di vista della lingua. E poi bisogna evitare la confusione fra realtà e verità. A Bali, molti anni fa, ebbi una conversazione che mi ha profondamente segnato. Il mio interlocutore voleva sapere come mai per noi europei fosse così importante essere certi dell’esistenza storica di Gesù. Il suo sospetto era che si trattasse di una mancanza di fede. Per lui, mi spiegava, era del tutto irrilevante che le vicende del Ramayana fossero storicamente documentate. Il fatto che quel poema fosse frutto di invenzione non toglieva nulla alla verità che esprimeva. La mia posizione personale è abbastanza simile: non sono sicuro che Dio esista, eppure credo in Lui».Come mai siamo finiti a parlare di religione?«I tre grandi monoteismi hanno a che vedere con il libro e con la lettura. Anche le prime scuole fondate dai missionari cristiani non avevano come obiettivo la promozione sociale, ma si basavano sulla convinzione che un credente dovesse anche essere un lettore. Ed è così, infatti. Sa, io ormai i lettori li riconosco facilmente, per quanto siano sempre più rari. I loro volti assomigliano a quelli dei fedeli in una chiesa, glielo posso assicurare».Lei ha molto fiducia nei lettori.«Sono convinto che meritino estremo rispetto. Tutti, senza distinzione. Quando viaggio in treno, mi capita spesso di incontrare donne immerse in un romanzo rosa o in una rivista comprata all’edicola della stazione. Nella loro concentrazione non c’è nulla di diverso rispetto all’attenzione esercitata da un lettore di Tolstoj. Non sono mai riuscito a trovare una documentazione scientifica adeguata, ma sono convinto che l’atto della lettura produca di per sé una trasformazione fisica nel nostro corpo. Una specie di sommovimento ormonale, legato in qualche modo alla componente femminile di ogni essere umano».Scrivere invece è un’attitudine maschile?«No, l’unica differenza sta nella fatica iniziale. Si comincia a leggere più facilmente di quanto si cominci a scrivere. Per quanto mi riguarda, però, è sufficiente superare l’ostacolo della prima frase, dopo di che la scrittura genera sensazioni identiche alla lettura».Si tratta, in entrambi i casi, di attività solitarie.«Che tuttavia richiedono la condivisione con gli altri. Ha presente la famosa domanda su quale libro ti porteresti su un’isola deserta? C’è chi sceglierebbe la Bibbia, chi un quaderno con le pagine bianche, su cui mettersi a scrivere. La mia convinzione è che entrambe le risposte non siano soddisfacenti. Si scrive e si legge, per poter parlare con gli altri di ciò che si è scritto e si è letto. Anche in questo c’è un’analogia con la fede: il credente vive in una meravigliosa solitudine, che però è contenuta in una dimensione comunitaria».Che idea si è fatta del cosiddetto libro digitale?«Non ho nulla contro il computer, lo uso perfino per giocare. Ma per me lettura e scrittura sono esperienze legate alla carta. Sono sempre stato affascinato dal fatto che un pastore evangelico, così come un sacerdote cattolico, non ripeta a memoria il rito della celebrazione liturgica e faccia invece ricorso al Messale. Che è un oggetto fisico, non solo un testo. Ho in mente certe beghine che da decenni leggono la stessa copia della Bibbia, le cui caratteristiche materiali quasi si confondono con il contenuto delle pagine. Gliel’ho già detto, no?, che i lettori si assomigliano tutti».
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