sabato 11 settembre 2021
Quarant’anni fa moriva il poeta e premio Nobel I suoi versi vivono una sorta di metafisica attualità e non soffrono di nessun anacronismo. Nasce anche una rivista di studi in suo nome
Eugenio Montale

Eugenio Montale - archivio

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Il 12 settembre 1416 nasceva a Sansepolcro Piero della Francesca. Cinquecentosessantacinque anni dopo – esattamente quarant’anni fa – Eugenio Montale moriva a Milano. Le coincidenze non finiscono qui, perché il poeta genovese è nato il 12 ottobre, giorno della morte del pittore. Numeri da capogiro. Dev’esserci un collegamento sotteso, atroce quasi, tra i due. Lo si avverte persino artisticamente parlando: disarmonia con il mondo (le figure staccate di Piero, gli «uomini che non si voltano» montaliani) e profondissima tensione metafisica. Ma nella vita di Eusebio – così era stato ribattezzato da Roberto Bazlen – le 'affinità d’anima' avevano compiuto il loro ultimo valzer tre mesi prima della scomparsa: il 15 giugno 1981 la studiosa americana Irma Brandeis (la misteriosa I. B. nella dedica delle Occasioni, Clizia e Iride nella Bufera e altro) ricevel’edizione Einaudi dell’Opera in versi, curata da Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, e un biglietto su carta intestata del Senato. La grafia è da aracnide, con il solito lancinante code-switching: «Irma, you are still my Goddess, my divinity. I prie for you, for me. Forgive my prose. Quando, come ci rivedremo? Ti abbraccia il tuo Montale». Erano passati più di quarant’anni (il ’38) da quando la «messaggera accigliata» era tornata in Europa per salvare il suo popolo – con segretissime operazioni di raduno per centinaia di ebrei a Lussinpiccolo e a Parigi, secondo Paolo De Caro – e Montale stesso dall’imminente arrivo della guerra. Lì era nato il mito dell’«inconsapevole Cristofora», lì si era però consumato l’addio definitivo in un concitato spicchio d’estate e, poi, in una dolorosa trafila di lettere con promesse vanificate. La sorte a due aveva ormai preso la strada della letteratura e niente più: restarono i silenzi, «l’altra faccia della morte/ che portammo rinchiusa in noi per anni e anni». Ora che la fine del viaggio terrestre di Eugenio Montale è sufficientemente distante dalla nostra presbiopia critica, ora che possiamo mettere a fuoco con maggiore nitidezza il suo lascito poetico, i dubbi sono paradossalmente i medesimi: molto, quasi tutto, è stato detto della sua esistenza e dei collegamenti organici con la poesia, in virtù di un’inesausta curiosità esegetica; le ispiratrici sono saltate fuori e soppesate in ogni riga; gli enormi sistemi concettuali messi in campo – cristianesimo, eresia frankista, gnosticismo, contingentismo francese e via discorrendo – sono stati prontamente vagliati; la fortuna non ha subìto colpi né sterzate; manca l’eredità, la parola prossima, ciò che liriche come “L’anguilla”, “Piccolo testamento”, “Il sogno del prigioniero” potranno suggerire alle generazioni future. Dovremo aspettare ancora. Una possibile direzione per l’ermeneutica montaliana è tuttavia ravvisabile nello sforzo creativo di rileggere l’opera sotto ottiche differenti, se non antinomiche. Va in questa direzione l’iniziativa promossa da Interlinea con la pubblicazione di una nuova rivista annuale, “Quaderni montaliani” (pagine 240, ill., euro 20), diretta da Roberto Cicala e formata da una solida compagine di montalisti e da un prestigioso comi- tato internazionale. Il primo numero, parallelo all’anniversario, è stato presentato a Milano ieri, presso Casa Manzoni, e si articola con una struttura limpida e lineare: la sezione d’apertura, “Testi”, «fa riferimento a edizioni di scritti montaliani inediti o rari e dispersi»; segue “Saggi e note” che «riguarda letture e interpretazioni specifiche»; infine “Recensioni”, «una schedatura completa delle nuove edizioni di testi e commenti montaliani e di un’ampia selezione dei principali contributi monografici e affini». Il pezzo forte del quaderno è la conferenza Poeta suo malgradoche l’autore ligure «pronunciò più volte in luoghi e momenti diversi in un lungo arco di tempo (1947-1962), in Italia e all’estero», senza mai editarla, come informa Gianfranca Lavezzi nella nota introduttiva. Una parte del brano è un’autocitazione dalla celebre Intervista immaginaria, stampata sulla 'Rassegna d’Italia' nel gennaio del 1946, in cui Montale riassumeva il suo tragitto letterario fino a quel momento. Ma lo stralcio iniziale che qui riproduciamo aggiunge un aspetto cruciale: l’investitura poetica non fu un atto preordinato, né tantomeno un destino: egli si riteneva e continuò a ritenersi «un uomo che è giunto alla poesia (o a qualcosa che taluni hanno creduto poesia) senza esserselo proposto deliberatamente e quasi senza saperlo». Ritrosia abilmente computata o invincibile umiltà venata di scetticismo? Propendiamo per la seconda ipotesi. Il numero prosegue con una lettera inedita di Svevo del 10 marzo 1928, indirizzata al suo talent scout di fiducia: annuncia da Parigi l’imminente traduzione francese di Senilità, il romanzo sveviano che Montale giudicava «più perfetto ». Ricche di spunti e documentaristicamente rilevanti anche le diciotto missive a Ugo Ojetti, curate da Paolo Senna. Il quaderno è impreziosito, oltre che da dodici recensioni, da quattro autorevoli saggi, rispettivamente di Stefano Carrai (su Bazlen e l’ambiente triestino), Paolo Zoboli (sulla Primavera hitleriana), Franco Contorbia (sul rapporto con Dylan Thomas e il Cimitero degli Inglesi di Firenze) e una memoria di Antonella Anedda («non solo musica ma orecchie tese ai rumori: schiocchi, scrosci, fruscii, ronzio di insetti»). È davvero un’occasione imperdibile per riflettere nuovamente sul mistero dell’uomo e del poeta, sul perché subiamo con un’intensità non diminuita il fascino magnetico dei versi. Sempre «nel segno di Montale»

L'inedito


Signore e Signori, le pagine autobiografiche che sto per leggere furono, in origine, destinate a un pubblico assai ristretto, a quello dei seminari della facoltà di lettere di alcune università svizzere e inglesi. Non pensavo, allora, ch’esse potessero interessare un pubblico più vasto, né supponevo che avrei mai avuto il coraggio di presentarmi in veste di autointervistatore e di autocommentatore dinnanzi a un pubblico più vasto. In Italia – dicevo anzi – avrei considerato me nell’atto di parlare di me stesso come un personaggio del Mondo della noia di Pailleron, come un prezioso ridicolo, indegno d’ogni attenzione e considerazione. E forse non ci voleva meno di questa tentazione a indurmi ad alzare il velo su cose e fatti che dapprima avevo comunicato solo per via indiretta e trasposta, affidandole ai modi della confessione lirica, della poesia, e talvolta (una sola volta) dell’autointervista. È dunque questa la prima volta che io porto dinnanzi a un vasto uditorio un discorso ch’era destina- to a un’udienza assai piccola e particolarmente preparata. Porto dinnanzi a voi una parola ch’era nata per esser detta [a] mezza voce e che si rivolgeva quasi esclusivamente a gente del mestiere, a gente dotata di una particolare attitudine a questo genere di confessioni. Riuscirà il nuovo esperimento? Se non riuscirà io spero che la difficoltà del tentativo mi farà scusare dagli amici di Trieste, parzialmente responsabili dell’audacia con cui rompo oggi un lungo riserbo. Parlandovi or ora di una intervista immaginaria alludevo a quella che concessi due anni fa a un non meno ipotetico redattore della “Rassegna d’Italia”, la rivista milanese allora diretta da Francesco Flora. Da tale colloquio con me stesso prenderò oggi le mosse per definir meglio alcuni aspetti di quella che io considero la mia “avventura letteraria” e per illustrare le fasi di quest’avventura con alcuni testi più o meno noti e anche ignoti affatto a chi mi ascolta. Francesco Flora mi aveva chiesto di parlare di me ai suoi lettori, di tracciare ad essi qualcosa come un’ars poetica personale, uno schema al quale essi potessero appoggiarsi per seguire un’esperienza poetica non scevra di difficoltà anche per chi abbia un orientamento in fatto di poesia moderna. Ed io scelsi la via che mi pareva più chiara, e rifacendomi ab ovo chiesi dapprima a me quali giustificazioni potevo dare a me stesso, da quali premesse fossi partito, da quale mondo naturale e sentimentale io avessi tratto il primo nutrimento, il primo impulso a percorrere una via che mi [si] presentava del tutto imprevedibile. Perché io sono, e non a caso ho intitolato queste confidenze, “poeta suo malgrado”, un uomo che è giunto alla poesia (o a qualcosa che taluni hanno creduto poesia) senza esserselo proposto deliberatamente e quasi senza saperlo; non dunque un poeta improvvisato ma un poeta che si riconobbe per tale solo di fronte alla natura dell’opera compiuta, un uomo che si è semplicemente arreso a certi fatti ch’egli non aveva né idoleggiati né preveduti. Come e perché ho scritto le prime poesie? Quando ho cominciato? Ci fu in me una vocazione poetica manifestatasi fin dall’infanzia.

Eugenio Montale

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