venerdì 7 dicembre 2018
L'ovazione è Mattarella è stata la vera ouverture dell'opera. La regia, dal taglio cinematografico, sposta ai tempi della Resistenza, ma è nella direzione di Chailly dove esplode tutta la tragedia
Una scena di "Attila" di Giuseppe Verdi che ha aperto la stagione del Teatro alla Scala (Brescia/Amisano - Teatro alla Scala)

Una scena di "Attila" di Giuseppe Verdi che ha aperto la stagione del Teatro alla Scala (Brescia/Amisano - Teatro alla Scala)

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Un Attila politico quello che oggi ha aperto la nuova stagione del Teatro alla Scala. Un Attila ai tempi della resistenza. Perché ha questo sapore il lungo applauso che ha salutato l'ingresso in palco reale del capo dello Stato Sergio Mattarella prima di un Inno di Mameli sussurrato a mezza voce da chi sembra chiedere all'Italia di (ri)destarsi. Un attimo e tocca a Giuseppe Verdi, che corre veloce verso il tragico finale. In mano, stretta in un pugno, la bandiera italiana: Odabella ha dato il colpo di grazia ad Attila, legato a una poltrona, torturato, sgozzato e poi scaraventato a terra, nemico vinto al quale non è concessa la pietà. Una donna che combatte, vestita come in una foto sbiadita che ti guarda da un sacrario della lotta partigiana.

Per Davide Livermore, infatti, Odabella ha il viso e il piglio forte di una staffetta partigiana. Nome in codice Odabella, ci potrebbe stare. Perché il regista porta negli anni Quaranta del Novecento, ai tempi della Resistenza appunto, le vicende di Attila, l’opera di Giuseppe Verdi che ieri sera ha aperto la nuova stagione lirica milanese con Riccardo Chailly sul podio. Quattordici minuti di applausi, foto per tutti, ma anche dissenso per Livermore.

Attila da sempre evoca altre invasioni. Lo fa grazie a Verdi capace di raccontare attraverso una vicenda del quinto secolo, quella del re degli Unni appunto, qualcosa di noi. Di chi siamo e da dove veniamo. Valore imprescindibile della memoria. Che Livermore associa alla resistenza partigiana. Inizia tutto dal nulla. Il palco vuoto, sul grande ledwall macerie di edifici post industriali. Poi la memoria inizia a disegnare i contorni della storia.

Dai sotterranei del palco si materializza la scenografia: un ponte di ferro e pietra diroccato. “Urli, rapine, gemiti, sangue, stupri, rovine e stragi e fuoco”. C’è tutto sulla scena che si affolla di un’umanità oppressa, quella dell’Italia della Seconda guerra mondiale: camionette della polizia, fucilazioni di piazza raccontano quello che "d’Attila è giuoco". E un grande videogame della storia è la regia di Livermore che ricostruisce come in un cinegiornale - costumi filologici di Gianluca Falsachi - le atmosfere dell’epoca. Racconta come in un film alla Roma città aperta la storia di Odabella che vuole vendicare il padre ucciso da Attila. Punto di partenza del libretto che Livermore rievoca in un flusso di memoria dove le scene – disegnate dallo studio Giò Forma tra frammenti di edifici e video – si susseguono in dissolvenza.

Un kolossal pieno di immagini ad effetto quello di Livermore, pensato e realizzato in formato tv per rendere il più appetibile possibile la diretta su Rai 1. Scene corali tecnicamente ben congegnate. A volte anche toccanti. Come lo sbarco dopo la tempesta dei profughi di Aquileia che portano gli arredi di una chiesa salvati alla barbarie per ricostruire anche in esilio un luogo in cui tutti si ritrovino perché il naufragio della vita, sembra dire Verdi, è quello che ti fa perdere i punti di riferimento. Come il sogno di Attila al quale appare Papa Leone: l’affresco dello storico incontro dipinto da Raffaello nelle Stanze Vaticane appare prima in una proiezione in bianco e nero e poi in una sorta di grande 3D colorato. Altre meno riuscite. Come a festa di nozze in un capannone (travestimento, ma nessun nudo e niente statua della Madonna gettata a terra).

Tutte, però, rischiano di rimanere in superficie, con un’estetica dei movimenti vecchio stile. Rischio che non corre Riccardo Chailly che crede nel Verdi giovanile, lo concerta solenne e ieratico. Nuovo. La lettura del direttore milanese arriva con una morbidezza e una cantabilità che mostrano la raffinatezza di una scrittura che anticipa i grandi capolavori verdiani che verranno.

Arrivano anche le cinque battute scritte da Rossini come introduzione al terzetto che prelude al tragico finale: l’azione si ferma e una luce rossa illumina il palco. Hanno in sé quegli squarci di morte di cui tutto il racconto musicale è contrappuntato, accompagnato da una lenta e inesorabile marcia funebre. Che inghiotte tutti i personaggi.

In orchestra e in scena il bianco e nero, il color seppia delle foto d’epoca per raccontare le fragilità di Attila che Ildar Abdrazakov (applauditissimo già dal primo atto) scolpisce con una parola che si fa teatro; la risolutezza di Odabella, affidata alla voce piena e affascinante di Saioa Hernández, temperamento e musicalità perfette per il personaggio chiave dell’opera; il patriottismo di Foresto al quale Fabio Sartori offre il suo squillo capace di piegarsi all’emozione; la meschinità politica di Ezio che ha il carattere vocale e scenico di George Petean.

Tutti armati contro tutti. Personaggi che escono a pezzi. Perché lo spettacolo di Livermore, come l’applauso a Mattarella, è politico, forse non revisionista nel senso storiografico del termine, ma certo critico con un capitolo della storia d’Italia sul quale non si è fatto ancora pace. Alla fine si compie una strage: i dissoluti della festa di Attila vengono trucidati dai partigiani, Odabella, Foresto e Ezio torturano il re, lo legano a una poltrona, lo feriscono prima del colpo finale della donna mentre sullo schermo torna, inquietante, il volto del padre morto. Finisce nel nulla Attila. Chi ha combattuto guarda lontano, verso lo schermo. Dove non ci sono più immagini, ma un chiarore che, però, non abbaglia. Inquieta nella sua freddezza. Vuoto. Come la sensazione che, messaggio politico di Verdi, lascia la vendetta.

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