Massimo Popolizio (Ansa/Massimo Percossi)
«Furore fa impressione per la visione epica di un’America in movimento che ricorda i milioni di persone in movimento oggi. Riguardando il passato non puoi che fare un paragone col presente. La grandezza di Steinbeck è di non limitarsi alla cronaca, ma di proporre una visione del mondo». Il grande attore Massimo Popolizio si appassiona nel parlare di Furore, il capolavoro scritto nel 1939 dal premio Nobel John Steinbeck che raccontava la drammatica migrazione dal cuore degli States verso la California dei contadini americani scacciati dalle loro terre dalle banche durante la Grande Depressione. Ne proporrà alcuni brani salienti nel recital che stasera terrà a Milano con introduzione di Camillo Fornasieri, nella giornata inaugurale di Andiamo al Largo, prima edizione del festival di cultura e incontro promosso dal Centro Culturale di Milano.
Popolizio, innanzitutto il tema della povertà in Steinbeck è di una attualità impressionante...
«Se un povero viene moltiplicato per milioni, cosa succede? Steinbeck scrive che se la povertà si trasforma in furore e non in depressione, il furore dei poveri è vincente. Non li puoi fermare perché è la necessità dell’uomo. Camminano e quello che gli serve se lo prendono. “Sanno che quando uno ha fame, la roba da mangiare se la piglia a tutt’i costi” scrive».
Lo scrittore denuncia anche un sistema economico dominato dalle banche che travolge soprattutto gli ultimi.
«Il trattore mandato dalle banche che ti manda via dalla tua terra non è diverso da un carro armato. E il popolo ha il diritto di difendersi. La bellezza di questo racconto non sta in una visione cronachistica degli eventi, ispirati alla realtà, ma sta in una visione molto epica che rende bene la tragedia della storia. Non è un dramma, è il respiro tragico dell’umanità. Fanno impressione le immagini di questi poveri americani nelle tendopoli, che non sanno come ripararsi dalla pioggia, questa macchina umana che cammina per centinaia di chilometri. Certe immagini mi ricordano i campi di pomodori di Rosarno. È cambiata la classe sociale, ma non è cambiata la storia».
Quali brani leggerà?
«Fra i tanti, leggerò anche un brano sulla bellezza della frutta: su come gli scienziati avevano trovato il modo di produrre grano migliore, come i vitigni della California erano diventati eccellenti e come tutto questo è stato mandato a monte durante la Grande Depressione perché nessuno riusciva più a rientrarci con le spese. Le patate buttate nell’acqua, le arance che marciscono, le viti che appassiscono, l’impossibilità di fare vino buono… Ecco, Furore è il testo adatto da fare leggere nelle scuole, per fare ricordare cosa è successo, qui da noi dove sembra tutto dovuto, compreso il cibo che spesso mangiamo sulle spalle degli ultimi. Certi ragazzini e i loro genitori li prenderei per le orecchie e li porterei dove mangiano i poveri e negli ospedali. È questo che abbiamo perso».
Una riflessione necessaria per il pubblico...
«Sarà un momento per riflettere attraverso una qualità letteraria molto alta. Quello che amo è l’immediatezza di Steinbeck, Furore è scritto così bene che dà molta soddisfazione leggerlo ad alta voce. E io mi prendo questa responsabilità. Anzi, da tempo ho idea di portarlo a teatro. Ho già messo in scena Ragazzi di vita di Pasolini, spesso i recital che faccio mi danno la possibilità di studiare e approfondire testi letterari non teatrali. So che Furore ha bisogno di un impianto scenico non facilissimo. Ci vorrebbe un teatro che investa molto in un impegno simile, ma non è detto che non lo faccia».
Steinbeck lei lo aveva già letto?
«Avevo già letto Furore e Uomini e topi che è un testo teatrale. Leggevo più spesso Faulkner che però è difficilissimo da interpretare dal vivo, perché ha una scrittura più alta, complessa. Ma Steinbeck mi piace perché è più diretto e meno contorto, Faulkner è più intellettuale. Devo ammettere, però, che a colpirmi da ragazzo fu il film Furore di John Ford del 1940, che ho rivisto più volte, con un magnifico Henry Fonda e con quella mamma che aveva qualcosa delle donne del nostro Sud. E poi ci sono quelle foto d’epoca strepitose dei contadini che ti fanno capire tutto, quelle facce di una miseria pazzesca. Le useremo anche nel recital a Milano».
Quali altri aspetti sono teatrali in Furore?
«La scrittura di Steinbeck è per immagini. Ci sono delle descrizioni meteorologiche meravigliose di vento, pioggia, di questo spazio americano abnorme. E poi ci sono dei concetti quasi marxisti. Il popolo, il furore, le anime che si uniscono: non è più la mia terra che rubano, ma la nostra terra che rubano, è il concetto. Un senso della giustizia del popolo che è cattolico, direi. Come dice l’autore, se si è soli si perde, se si è in due già si può vincere, si può certamente vincere solo se si è insieme».
Altri impegni letterari per Massimo Popolizio?
«A luglio al Sacro Monte di Varese terrò un recital sul senso religioso della vita nella poesia da Michelangelo a Fabrizio de André, Lucio Dalla, Alda Merini, Roberto Mussapi, Eugenio Montale. La stagione prossima per il Teatro di Roma metterò in scena come regista e attore un altro testo meraviglioso, Il nemico del popolo di Erik Ibsen. Inoltre continuo la direzione artistica della scuola di Santa Cristina fondata a Gubbio da Luca Ronconi dove con i ragazzi metteremo in scena Gli amori difficili di Italo Calvino».