lunedì 17 marzo 2014
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«Umiltà, normalità e rispetto». Sono i tre capisaldi della filosofia di vita, ancor prima che calcistica, di Vladimir Petkovic, allenatore della Lazio fino al 4 gennaio scorso (sostituito da Reja) e prossimo ct della Svizzera, dal 1° luglio (al posto di Hitzfeld). «Vede quelle due torri laggiù in fondo al lago? Lì feci fare il primo provino a Lulic...», dice il tecnico “apolide” seduto al Caffè Lungolago di Locarno. È qui che lo incontriamo, nel buon ritiro ticinese in cui vive con la moglie Ljiljana - «è la mia grande fortuna», dice sorseggiando un cappuccino - e le due figlie Ines e Lea: «I miei angeli custodi, specie in Internet: ci sono 3-4 siti in cui scrive un “falso Petkovic” di cui dovete diffidare. Io non ho scritto né parlato neppure dopo quello che è successo con la Lazio...». Un addio brusco con il club biancoceleste. «Mi è dispiaciuto tanto lasciare un progetto in corso che sono sicuro avrebbe dato ancora dei risultati importanti. Comunque alle ferite da “coltellate alle spalle” ho preferito rispondere come sempre, con il silenzio. Ringrazio il presidente Lotito e il ds Tare che hanno rischiato scegliendomi, ma io ho la coscienza a posto. Non ho mai tradito nessuno e la gente lo sa. Quando cammino per le strade di Roma i tifosi, laziali e non, mi fermano ancora per dirmi: “Lei Petkovic è un gran signore!”. Questo per me è il riconoscimento più importante di una carriera, in cui ho combattuto e combatterò sempre affinché a vincere sia la normalità».Siamo partiti dall’episodio Lazio, dalla fine del “film” della sua vita. Forse è il caso di cominciare da Sarajevo, dove è nato nel 1963.«Città affascinante, multietnica, in cui ho imparato tutte le lingue slave e ho studiato il russo per otto anni. Da universitario - iscritto a Giurisprudenza - ero immesso nel fermento culturale. Venivo da un’infanzia serena, tutta studio, famiglia e calcio. Al venerdì sera, spesso partivo per le trasferte con le squadre che allenava mio padre, Ivica Petkovic. Allo stadio veniva anche mia madre Nada e mia sorella Daniela che è stata nazionale croata di pallamano e dopo la guerra della ex Jugoslavia è andata a vivere in Francia. Adesso fa l’allenatore anche lei, a Tolosa».Che ricordi ha di quella assurda guerra fratricida?«Un grande silenzio che mi parlava di morti ingiuste. Nel ’92 ero già in Svizzera da cinque anni: mi ero trasferito per giocare nel Coira. Raccoglievo aiuti umanitari e spedivo pacchi con i viveri ai miei genitori - e non solo - che erano rimasti a Sarajevo. I primi sei mesi ricevevo quotidianamente loro notizie telefonicamente, poi quel silenzio spettrale... Un inferno, ma per fortuna è finito».Meglio parlare di calcio e del Petkovic giocatore: centrocampista molto tecnico e già “allenatore in campo”.«Ho giocato in club di tutti e quattro i cantoni. Dicevano che somigliavo al bosniaco Dusan Bajevic e nelle giovanili del Sarajevo avevo studiato tanto Safet Susic, l’ex stella del Paris Saint Germain. Nel 2000 ho chiuso da allenatore-giocatore nel Malcantone Agno, un piccolo miracolo calcistico, in cinque anni passammo dal dilettantismo alla serie B, per poi fonderci con il Lugano».Quelli sono stati anche gli anni del suo impegno nella Caritas.«Io lo chiamo il mio periodo di “purgatorio” - sorride -. Allenavo di sera e al mattino alla Caritas di Giubiasco mi occupavo di stranieri, disoccupati, ex tossici e alcolisti. Insomma, di tutte quelle persone che avevano bisogno di un reinserimento sociale. Quel lavoro mi ha insegnato il valore profondo del dialogo e delle relazioni umane, che poi ho sperimentato anche nella mia professione».Alla Lazio lei ha provato anche il vuoto delle partite a “porte chiuse”, causa razzismo e antisemitismo degli ultrà.«La squalifica in Europa League è stato un danno per tutti. Ad alti livelli si lavora e si gioca per la gente che più è e maggiore sarà la produttività in campo. Il razzismo purtroppo esiste ovunque, ma in Italia a me pare che a volte sia solo il pretesto per per alimentare inutili polemiche e non per affrontare seriamente il problema. E intanto gli stadi si svuotano».I tifosi laziali stanno disertando l’Olimpico, protestano contro Lotito.«Mi dispiace molto. La passata stagione abbiamo disputato partite davanti a più di 60mila spettatori. Ci sono stati lunghi periodi in cui non si sentivano né fischi, né contestazioni contro la società. Il calcio moderno ha creato uno scollamento tra il “divismo in campo” e la gente comune, e queste sono le conseguenze. Senza una formazione etica e un’informazione corretta, non si fa educazione. Si è perso il senso del rispetto».“Chiedo rispetto”, è stata la prima frase che lei ha pronunciato al suo arrivo a Formello.«Venivo dal Samsunspor, sapevo che la mentalità del calcio turco somiglia tanto a quella italiana. La sana passione viene sopraffatta dalla pressione e dallo stress mediatico. Con un certo stupore ho scoperto che a Roma ci sono venti radio che parlano di calcio dalla mattina alla sera, mentre a Milano sono solo due. Forse si dovrebbero studiare e magari correggere certi fenomeni...».Un peccato Capitale l’eccesso di radio sportive. Ma non ha nessuna nostalgia di Roma e della Serie A?«Non ho ancora visto il film di Sorrentino, ma per me Roma è davvero una “Grande Bellezza”. Ho ricevuto tanto dalla Lazio, però ho anche ridato indietro qualcosa di importante. Battendo la Roma nella finale di Coppa Italia, abbiamo scritto una pagina di storia. Peccato che il passato sia davvero una “terra straniera” che pochi riconoscono... Se in futuro un club di A mi proponesse un progetto serio accetterei volentieri la sfida».Prima però, per lei c’è quella con la Svizzera che, con la nuova legge sull’immigrazione, avrebbe solo tre “figli di stranieri” tra i titolari.«La Super League è piena di calciatori figli di stranieri che ormai, però, sono svizzeri anche di quarta generazione. La globalizzazione in questo caso ha migliorato la qualità degli atleti, ha permesso di creare accademie, ma soprattutto ha fatto capire alla Svizzera l’importanza di investire sullo sport come strumento di integrazione».Noi abbiamo appena cominciato con il “black-italian” Mario Balotelli, che però passa più per un “ragazzo difficile” che un campione azzurro.«In ogni squadra c’è un Balotelli. Allo Young Boys ne avevo due: Doumbia e Doubai. Li portavo a casa mia e ci parlavo, più che con gli altri. A volte a questi ragazzi manca una figura paterna. A noi allenatori, invece, manca il tempo per stabilire dei rapporti umani con loro. Su questo aspetto lavorerò ancora di più quando sarò ct».Il primo obiettivo da ct della Svizzera?«Portare i giocatori della nazionale in Vaticano per incontrare le guardie svizzere e magari papa Francesco. Lui è il massimo esempio di normalità, un Papa che dice buon appetito quando la Messa è finita...».
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