mercoledì 24 marzo 2010
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Vent’anni fa moriva Sandro Pertini, il Presidente della Repubblica più amato dagli italiani, e attraverso una testimonianza tutta personale vorrei ricordarlo nella sua profonda umanità di servitore integerrimo e leale della Patria. Il mio incontro con lui avvenne in modo assolutamente casuale e imprevisto attraverso il filo del telefono. Era la fine del maggio 1963; in quegli anni lavoravo in Segreteria di Stato e l’improvviso aggravarsi delle condizioni di salute di Giovanni XXIII aveva suscitato la trepida e preoccupata attenzione di tutto il mondo. Fra le tante telefonate dalle differenti voci e provenienze, mi incuriosì il fatto che ogni giorno, immancabilmente, avvertivo il timbro di una voce maschile inconfondibile, e sempre la stessa, dal tono fermo e accorato, che chiedeva informazioni delle condizioni di salute del Papa. Si arrivò al pomeriggio del 3 giugno 1963. E ancora quella stessa voce a chiedere notizie. Dovetti purtroppo rispondere a quell’anonimo signore che il bollettino medico del mattino non offriva alcuna speranza. Infatti Giovanni XXIII moriva qualche ora dopo. Ma quella voce si rifece ancora viva per ringraziare chi, nei giorni prima, gli aveva puntualmente fornito le informazioni desiderate. Lo sconosciuto signore chiese chi ero. L’accontentai precisando, prima di tutto, che non ero affatto un «monsignore», ma un semplice frate francescano. «Bravo! Che bello, io amo san Francesco!».Poi, incuriosito, toccò a me rivolgergli la domanda: «Potrei sapere lei chi è?». E lui: «Sono Pertini»: così, semplicemente. La conversazione telefonica continuò a lungo. Un colloquio a due, confidenziale, commovente, come una confessione tra uomo a uomo. Pertini mi ricordava, commosso, gli anni della sua infanzia, il tenero e forte attaccamento alla sua dolcissima mamma, cattolica praticante, che era solita accompagnare il piccolo Sandro alle funzioni religiose del paese. Pertini rammentava gli anni giovanili e universitari, la sua militanza nel mondo operaio e politico. Il suo dire si arrestò un istante: «Fu in quegli anni che persi la fede. Capivo che la mia Chiesa non mi era poi così tanto credibile e coerente. Ai documenti pontifici non corrispondevano poi chiare prese di posizione a favore dei lavoratori e del mondo operaio». Avvertivo nel racconto tanta sincerità ma pure un altrettanto e sommesso sottofondo di nostalgia per la fede perduta. «Caro onorevole – gli dissi – l’importante è essere giusti e onesti, e io so che lei lo è: stia sereno. Anche se forse non lo avverta, Dio ce l’ha in tasca». Non ci sentimmo per un bel po’. Lo vidi, ed era la prima volta, dopo qualche anno in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Mi abbracciò. Diventammo amici. Da quel giorno gli incontri si ripeterono. Lo visitavo nel suo ufficio alla Camera, e poi al Quirinale. Al mio arrivo Pertini ordinava subito un caffè che pagava puntualmente di sua tasca, aggiungendo la mancia al cameriere. Quante belle chiacchierate! Desiderava che ci scambiassimo del «tu» e si discorreva di tutto: cultura, storia, politica e – perché no? – anche religione. Era affascinato dalla figura di Papa Roncalli e dalla sua genuina bontà.Parlava con una punta di compiacimento del suo passato di perseguitato politico, costellato di arresti, processi, condanne nonché di qualche fuga dalle patrie galere: in tutto 8 anni di carcere e 6 di confino. Si stupì e si commosse quando gli raccontai che anche nel mio passato ci fu qualcosa che si poteva allineare in qualche modo al periodo partigiano. E cioè come da giovane fraticello ero solito arrampicarmi sulle montagne della Valsesia con altri frati del convento di Varallo Sesia per accompagnare e portare in salvo, attraverso il monte Rosa verso la vicina Svizzera, ebrei e prigionieri alleati fuggiti dai campi di concentramento italiani. Aveva una sensibilità umana straordinaria. Nel novembre del 1970 fui ricoverato al Policlinico Gemelli di Roma. Non so come, Pertini venne a saperlo e, nonostante che in quei giorni fosse impegnato come presidente della Camera per la legge del divorzio, riuscì a trovare il tempo di visitarmi in ospedale. Sentiva fortissimo il senso dello Stato e delle istituzioni. Un giorno lo incontrai nel suo ufficio alla Camera veramente infuriato. Era divampato lo scandalo Lockheed, un caso di corruzione relativo alla fornitura di aerei da trasporto in cui risultava coinvolto qualche funzionario dello Stato e qualche  politico di spicco. «Vedi – mi disse –, c’è chi arriva in Parlamento con sogni e progetti e poi si sporca le mani in faccende poco pulite dimenticando il bene e l’interesse del Paese». Nel 1971, prima di partire missionario per la Papua Nuova Guinea, andai a salutarlo. Fu un incontro per entrambi molto commovente. Mi abbracciò e mi disse: «Ti invidio, caro amico. Quello che fai non è di tutti. Avessi la tua fede! Però, credimi, mi sento anch’io un po’ missionario. Anche la mia è missione. Sono qui. Credo nell’uomo, amo la gente, lavoro e lotto per la giustizia. Ti ricorderò».Ci lasciammo. Nel luglio 1978, mentre mi trovavo nel fitto della giungla equatoriale, dalla mia radiolina a transistor appresi della sua elezione a capo dello Stato. Tornai dalla missione per ragioni di salute dopo dieci anni e ripresi a frequentare di tanto in tanto il Presidente. Una volta gli portai del tabacco olandese per la sua storica pipa. Un’altra volta Il giornale dell’anima di Papa Giovanni. Un’altra volta una pittura di san Francesco che non gli piacque, gli sembrava la faccia di un brigatista. San Francesco poteva essere magari anche bruttino, ma era simpatico. Aveva ragione. «Preferisco Giotto», mi disse. E si parlò di san Francesco di cui Pertini era affascinato: «Sai, negli anni Cinquanta il partito mi pregò di chiudere la campagna elettorale ad Assisi. Pensai che certamente il santo proprio in quella stessa piazza aveva parlato chissà quante volte di pace e di riconciliazione. Mi balenò un’idea e la misi subito in atto: per rispetto al Poverello pregai gli organizzatori di disporre che il comizio fosse tenuto nel teatro situato proprio lì accanto. E così fu».Un giorno mi disse: «A volte, e lo riconosco, sono un po’ troppo impulsivo. Ma sono fatto così. Mi inquieto quando vedo che non si ama la propria Patria come si dovrebbe. Noi siamo al servizio della gente e non di noi stessi e dei nostri interessi». Una sera gli dissi: «Sandro, dici di non credere in Dio. Ma tu sei un uomo giusto e onesto, lo vedono  tutti. Dio non può essere lontano da te». «Ci sto pensando – replicò –, è da un po’ che ci sto pensando». I nostri incontri, purtroppo, diminuirono. Seppi che, poco dopo la sua elezione, chiese di rendere subito omaggio al Papa, privatamente, in attesa delle solite procedure ufficiali. L’incontro avvenne il 3 agosto 1978, nella residenza estiva di Castelgandolfo. Paolo VI era già tormentato dalla febbre ma andò incontro all’ospite a braccia aperte: «Eccellenza, signor Presidente, benvenuto!».«Santità, sono solo Sandro Pertini e basta; e lei è il Papa». Paolo VI morì tre giorni dopo, il 6 agosto, e l’indomani – con altro passo ed altro volto – il Presidente tornò a Castelgandolfo per sostare a lungo accanto alla salma del Pontefice. Io dovetti poi lasciare Roma e stabilirmi a Ginevra al servizio della Santa Sede. Seppi della morte dell’amico soltanto qualche giorno dopo l’evento, avvenuto il 24 febbraio 1990. Sandro Pertini è stato un galantuomo, ricco di umanità. Ne ho ammirato la straordinaria schiettezza, la semplicità e sobrietà della vita, l’amore per la gente e per i giovani in particolare, la grande passione per l’Italia per cui è stato strenuo difensore della legalità istituzionale e della democrazia. C’è davvero da augurarsi che il suo forte esempio, nel ventennio della morte, possa veramente scuotere  le coscienze di tutti gli italiani.
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