martedì 20 aprile 2021
Mario Liverani prende in esame la tradizionale separazione tra Oriente e Occidente e ricostruisce come tra Ottocento e Novecento la ricerca storica abbia giustificato culturalmente il colonialismo
Guardie imperiali dal Palazzo di Dario I a Susa. Berlino, Pergamonmuseum

Guardie imperiali dal Palazzo di Dario I a Susa. Berlino, Pergamonmuseum - WikiCommons

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Foscolo lo dice in modo felicissimo: a Maratona, “ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi”, contro i Persiani a vincere fu “la virtù greca e l’ira”. Non una semplice battaglia ma lo scontro epocale di due visioni ben distinte: da una parte la libertà dell’uomo occidentale; dall’altra il dispotismo di un impero “barbaro”, dalla lingua rozza e moralmente corrotto (centocinquanta versi prima Foscolo definiva “lombardo Sardanapalo” il viziato nobiluomo). Dei sepolcri viene pubblicato nel 1807: duecento anni dopo, nel 2006, nel film 300 Hollywood rinverdiva il mito delle Termopili e del sacrificio dello spartano Leonida. Poesia neoclassica o entertainment postmoderno, sono segnali di quanto profonda e diffusa sia la percezione di una drastica differenza tra Occidente (europeo) e Oriente (asiatico). Non ce lo insegna la storia? E, dopo tutto, non è così anche oggi, con l’Occidente impegnato a difendere la democrazia contro dispotismi teocratici insediati nelle stesse terre che un tempo erano degli imperi babilonesi e persiani?

Oriente Occidente, un recente saggio di Mario Liverani (Laterza, pagine 242, euro 24,00), è lettura quanto mai istruttiva. Professore emerito di Storia del Vicino Oriente alla Sapienza, Liverani traccia i legami tra storiografia, archeologia, filologia, esegesi biblica, e politica (tanto il potere statuale quanto l’elemento ideologico). La discipline di studio e la ricerca sul campo tra Ottocento e prima metà del Novecento producono infatti patenti di giustificazione culturale ai fenomeni di espansione coloniale ed egemonica dell’Europa nazionalista.

L’opposizione strutturale di Occidente e Oriente, una forma mentis antichissima e della quale fatichiamo a liberarci, si muoveva in realtà su un binario divergente, ossia la separazione “morale” e l’eredità storica e materiale: dopo tutto questi erano i luoghi dove era nata la civiltà e qui era la culla del cristianesimo. «Andavano così prendendo forma contemporaneamente due diversi paradigmi interpretativi dell’Oriente – scrive Liverani –. Il primo era di tipo appropriativo, basato in ultima analisi sull’origine vicino-orientale del Cristianesimo e sui miti delle origini orientali della cultura greca; il secondo era di tipo contrappositivo, basato su pregiudizi razziali e socio-politici che risalivano alla grecità classica e che trovavano conferma e vistose illustrazione nel ottocentesco degrado dei Vicino Oriente, stretto tra la rapace fiscalità ottomana e la rinunciataria indolenza araba. Questo contrasto tra desiderio di appropriazione e presa di distanza veniva ricomposto nella constatazione che il patrimonio culturale che si voleva acquisire rimontava all’antichità biblica e archeologica, mentre il contrasto politico ed economico riguardava il mondo moderno. La conquista/liberazione sembrava così la soluzione più coerente per ribadire la proprietà occidentale delle antiche civiltà, e per far beneficiare anche di Vicino Oriente moderno di tutti i vantaggi di una illuminata sovranità occidentale».

Liberare dai barbari contemporanei un patrimonio usurpato, sul quale si rivendica una sorta di diritto ereditario: è anche così che nascono i grandi musei archeologici europei. Vale la pena segnalare, a questo proposito, pure il volume di Simona Troilo Pietre d’oltremare. Scavare, conservare, immaginare l’Impero (1899-1940) (Laterza, pagine 330, euro 22,00), che si concentra sul caso specifico italiano, dove l’archeologia in coincidenza con il sorgere delle ambizioni coloniali sabaude e con il Ventennio fascista, ha avuto un ruolo importante nella costruzione di una alterità barbara, inferiore e subalterna – una prospettiva favorita per altro dalla guida narrativa dell’impero romano di cui il novello italico era reincarnazione.

L’appropriazione culturale sublimava e giustificava dunque lo sfruttamento economico e la sudditanza politica.È Ernest Renan a fornire alla questione un supporto scientifico, grazie anche alle categorie positiviste di race e milieu, elaborando la teoria dei popoli. L’antropologia dell’epoca, osserva Liverani, non recepisce il coevo evoluzionismo: i popoli sono sempre uguali a se stessi, per Renan solo gli ariani evolvono e ragionano. Da parte loro, gli storici tracciano la cronologia (ancora oggi persistente) di un moto est-ovest delle civiltà (Ex Oriente Lux) e della sede del potere (translatio imperii): da Egitto e Mesopotamia alla Grecia e infine a Roma. Da qui nel Medioevo l’eredità sarebbe passata all’Europa cristiana.

Nella seconda parte del volume Liverani riassembla i grandi processi storici del Mediterraneo orientale come emersi dalla moderna ricerca, non più volta a dimostrare teorie a priori, discutendo molte delle questioni chiave (come la definizione di città, storicamente tra le più inficiate sotto il profilo ideologico) sia attraverso la moderna visione multipolare e globale che abbandona lo schematismo progressivo e finalistico dei vecchi paradigmi, sia attraverso la categoria, coniata da Jaspers, di “età assiale”. La storia diventa un fluire lento ma costante di trasformazioni e diversificazioni. Eventi come le invasioni dei “popoli del mare”, che portano al collasso il sistema dell’età del Bronzo, sono traumatici davvero solo perché insistono su fragilità pregresse e diffuse.

Particolare attenzione è posta sul Levante (Palestina, Siria, Anatolia, Cipro) come struttura cerniera tra gli imperi orientali e il Mediterraneo. Dotati di autonomia e fonti di significative novità culturali (ad esempio la scrittura alfabetica) e religiose (il monoteismo nel regno di Giuda), da questi territori si espandono modelli amministrativi, sociali, estetici, filosofici: in tutte le direzioni.

Le sorti del Levante sono significative in questo affresco. Fenicia e Grecia erano due entità molto simili per via di una struttura di città-stato e la collocazione sul Mediterraneo orientale, ma la prima rimase parte dell’Oriente e la seconda divenne simbolo dell’Occidente: perché? «C’è un progressivo indebolimento della macchina militare dell’impero man mano che si allontana dal centro», osserva Liverani. Le parti del Levante più prossime vennero conquistate rapidamente e sottoposte a un più lungo periodo di deculturazione, quelle intermedie resisterono abbastanza da elaborare strategie di difesa più efficaci e anche ideologie di autoidentificazione e contrapposizione (è il caso, ad esempio, degli ebrei). Quelle lontane invece si trovarono in condizioni più fortunate: poterono «resistere abbastanza a lungo da superare la congiuntura espansiva dell’impero, dar vita a una periferia “strutturale” non conquistabile e non assimilabile; e infine elaborare lo scontro come basato su valori ideali e il suo esito come determinato proprio da una differenza di valori». La frontiera dell’espansione imperiale «diventa così frontiera tra due mondi idealmente diversi, e genera una contrapposizione Oriente-Occidente che poi rimarrà eredità prolungata nel tempo».

Prima della riforma di Clistene la democrazia nella penisola greca era sugli stessi livelli delle città-stato del Levante siro-palestinese: «Un’evoluzione che lì fu stroncata dagli eserciti assiri e babilonesi fu invece capace in Grecia di darsi tempi sufficienti per maturare e imporsi». Atene non appare più come una singolarità ma come la parte di un sistema a cui toccò la sorte di essere così periferica da essere raggiunta sufficientemente tardi dall’onda omologatrice dell’impero.

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