sabato 3 dicembre 2011
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«Finché ce n’hai stai lì...», continua a cantare sul palco Ligabue e continua a pensarla così anche il suo idolo, Gabriele Oriali nella sua inesauribile “vita da mediano”. Una vita passata a recuperare palloni, a rincorrere generoso il suo destino e quello delle persone che ama, fuori e dentro il campo. «Tre cose - dice - mi hanno sempre dato una spinta in più: la fede incrollabile nel buon Dio, l’amore e il rispetto per la famiglia e poi la grande passione per il mondo del calcio...». Un mondo che ha visitato in lungo e in largo con la maglia dell’Inter, arrivando fin sotto la Grande Muraglia: «Siamo stati la prima squadra italiana ad entrare in Cina», ricorda. Un mondo che ha visto dal “tetto” più alto che c’è, a Spagna ’82, per poi ritrovarsi a piedi dopo trent’anni (19 da giocatore e 11 da dirigente) di fedeltà assoluta alla Beneamata. E allora il film della vita schietta ed intensa di Lele Oriali va rivisto partendo dall’ultima sequenza: l’addio all’Inter. «Un addio che fa ancora male, perché sono stato costretto ad andarmene. Non è stata colpa di Moratti, ma di quelle persone che girano intorno a lui... Con il presidente ci sentiamo ancora, lui sa che cos’è per me l’Inter. Metà dell’esistenza l’ho trascorsa alla Pinetina, quella rimarrà per sempre la mia seconda casa». Ma se la società lo ha sganciato, Oriali è ancora nel cuore del popolo nerazzurro che a gran voce ne chiede il ritorno. «Mi ha fatto un piacere enorme vedere gli striscioni che mi hanno dedicato allo stadio e i tanti messaggi di stima e d’affetto pubblicati su Facebook. Non pensavo di essere così amato... I tifosi mi hanno fatto capire che dopo Giacinto Facchetti l’ultima “bandiera” ero io. E prima di arrivare al dolce “triplete” quanti bocconi amari ho ingoiato...». Il 22 maggio 2010 in quel Bernabeu in cui da azzurro aveva conquistato la Coppa del Mondo, con Mourinho alzò al cielo l’agognata Champions, ma il 20 luglio spiazzava tutti annunciando la fine del suo rapporto con l’Inter. «Quando Mourinho mi fece capire che sarebbe andato via, gli dissi che allora anche il mio tempo all’Inter era scaduto. Josè invece mi rassicurava dicendomi: “Guarda che noi vinciamo tutto e loro dovranno tenerti per forza”... È stata una delle poche volte in cui si è sbagliato». Parla con affetto dello “Special One” perché dice: «Ci sono due Mourinho, quello mediatico che è sotto gli occhi di tutti e il Josè padre di famiglia, amico e confidente che abbiamo avuto la fortuna di conoscere in pochi. E posso assicurarvi che quest’ultimo, il Mourinho “umano” è davvero speciale». Ora sotto i riflettori della tv c’è finito anche lui nel ruolo inedito di opinionista di Mediaset Premium, l’emittente del patron del Milan, Berlusconi. «Per ora non ho ricevuto nessuno sfottò in merito, anche perché penso di essere sempre stato obiettivo, mai avuto problemi a fare i complimenti al Milan quando li merita, così come critico tranquillamente l’Inter quando non va. Sono uno che ha sempre detto quello che pensa e magari questo viene visto come un difetto». Arruota la “r” Oriali quando fa autocoscienza su quelli che considera i suoi errori. «Quando mi guardo indietro penso: ma chi l’avrebbe detto che saresti arrivato così in alto? Però ho commesso un grosso errore... Aver tenuto sempre tutto dentro e non essermi mai goduto a pieno le vittorie. La notte della finale dell’82, dopo la partita mi chiusi in una stanza con Zoff e Scirea, i tre “muti”. Eravamo campioni del mondo, eppure non riuscimmo a dire una parola...». Il silenzio di tre eroi esemplari del calcio: il portiere, il libero e il mediano di Bearzot arrivato in cima, partendo dal basso. «Mio padre - continua - lavorava all’azienda municipale di Desio e mia madre doveva crescere sei figli, con una sorella che aveva bisogno di operazioni continue per via della poliomelite. A fine mese di soldi non ce n’erano più. Avevo 140 lire per il tram per andare agli allenamenti, finiti quelli addio...». Ma nel 1967 arriva la chiamata dell’Inter. «Quello è anche l’anno in cui ho perso mio fratello Gualtiero, morto a 23 anni in un incidente stradale. Stessa sorte è toccata a Giuseppe, il fratello più piccolo... Spesso ti senti dire che sei ricco, famoso e che hai vinto tutto, e invece nella mia vita, come in quella di ogni uomo, ci sono pure tante sconfitte e ferite che non si rimarginano più». Si fa triste per un attimo, ma recupera il sorriso al volo, come un pallone lì nel mezzo e torna ad essere l’eterno “Piper” di Gianni Brera. «Per Brera ero “Piper”, come lo champagne, ma quando giocavo le mie partite frizzanti. Se invece incappavo in una brutta giornata non mi risparmiava il votaccio in pagella e allora diventavo “gazzosino”...». Nostalgia per il calcio di letteratura, «per le voci alla radio di Ameri e Ciotti e le sintesi registrate della Rai di un tempo solo della partita clou, in bianco e nero». Oriali sfoglia di corsa l’album dei ricordi nella sua memoria e rivede i duelli con Rivera, Claudio Sala, Platini e Maradona. Tutti campioni che ha inseguito e braccato. Insieme ai campioni che ha cresciuto da dirigente e “collezionista” di Palloni d’Oro: Fabio Cannavaro «l’ho avuto quando ero al Parma», Ronaldo e Figo «all’Inter» e Roberto Baggio «che portai al Bologna. Ho giocato con Baggio alla Fiorentina quando aveva 16 anni, era già un fenomeno. Roby è stato il calciatore italiano che più si è avvicinato al genio di Maradona». Oggi gli piacerebbe vedere l’effetto che fa Oriali contro Messi e si stupisce di come al Barcellona «Guardiola riesca a motivare ogni giorno ragazzi che hanno vinto tutto». Ma lo stesso carisma in panchina lo vede anche nel compagno di tante battaglie e di vittorie all’Inter, Roberto Mancini. «Il “Mancio” ha cambiato radicalmente la mentalità e il sistema di lavoro al Manchester City». Mancini sta anche cercando di cambiare la testa matta di Mario Balotelli. «Mario non è forte, è di più ancora. Ma ha bisogno di crescere e di avere intorno a sè gente che gli vuole bene sul serio e non perché è ricco e famoso, ma perché è Mario, un ragazzo buono che è anche un talento del calcio». Un talento al quale Oriali vorrebbe tornare a stare vicino, magari trasferendosi proprio al City. «Sono stato a Manchester da gennaio a giugno. Ho toccato con mano il “calcio vero”, noi purtroppo siamo indietro anni luce. Ho visto stadi confortevoli dove le famiglie arrivano un’ora prima con i bambini, mangiano al ristorante, visitano il museo del club e poi guardano la partita in tranquillità...». Per atterrare nel calcio dei sogni, il Lele nazionale alla soglia delle 60 primavere si è rimesso anche a studiare l’inglese. «Alla mattina in Inghilterra andavo a scuola. Un sensazione strana per uno che all’esame di terza media si sentì dire dal professore: “Oriali, i libri non fanno per te, piuttosto spendi le tue energie nello sport”. Aveva visto giusto, ma oggi so che lo studio serve eccome. Sono un autodidatta, fiero di quattro figlie (Veronica, Francesca e Valentina «le gemelle» e Federica) tutte laureate con 110». Con sua moglie Delia sono i suoi cinque “scudetti rosa” cuciti sul cuore, di cui va orgoglioso. Così come va fiero dello scudetto del 2006, assegnato all’Inter per gli effetti di Calciopoli. «L’unica vera vittima di Calciopoli è stato quel gran signore del presidente del Bologna Gazzoni Frascara. Lo scontro Juve-Inter? Ma c’è sempre stata una stupida e inutile “guerra”. L’ultima volta che giocai con l’Inter contro la Juve finì 3-3, ma poi ci diedero il 2-0 a tavolino perchè tirarono due mattoni contro il nostro pullman. Marini non potè scendere in campo e a me ci misero delle ore per estrarmi dalla pelle tutte le schegge del finestrino. Io penso che sia il momento di sedersi a quel tavolo del Coni e fare la pace sul serio, perché certi attacchi continui possono diventare pericolosi e generare una violenza che non ha nulla a che vedere con il calcio». Chiede la pace il caposcuola di quella razza, forse in estinzione, dei mediani veri. «Siamo i gregari del pallone, quelli che lavorano tanto e spesso nessuno se ne accorge di quanto sia prezioso il nostro sacrificio. Mi sono rivisto spesso in Conte, Zanetti, Tommasi e Gattuso». Quelli che natura non gli ha dato «nè lo spunto della punta nè del 10 che peccato...», canta Ligabue che ai 100mila di San Siro intona il refrain «lavorando come Oriali» in Una vita da mediano. «Certo che mi piace quella canzone, ho provato anche a cantarla, ma sono stonato come una campana. E pensare che per anni ho fatto il chierichetto cantore all’oratorio di don Luigi...».
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