mercoledì 8 marzo 2023
Sciego, Rasy, Bortolotti e Mearini: autrici di età differenti, generi letterari diversi, ma tutte concentrate su una questione cruciale per la nostra contemporaneità: l’identità
Nel nuovo romanzo italiano al femminile la voce del riscatto

Tom Hermans / Unsplash

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In che direzione va la scrittura delle donne? È quasi impossibile non citare una narratrice che ha congedato per Bompiani il romanzo Cassandra a Mogadiscio (pagine 368, euro 20,00), ma che ha una lunga storia alle spalle iniziata nel 2003 con La nomade che amava Alfred Hitchcock, ove si racconta la storia della madre, della sua infanzia di nomade e delle vicende che poi l’hanno condotta in Occidente. Mi riferisco a Igiaba Scego, scrittrice italiana di origine somala, figlia di quell’Ali Omar Scego, che fu ministro degli Esteri prima della presa del potere di Siad Barre. Un esempio perfetto di felice transculturalità: tanto più che il tema principale dei suoi libri è proprio quello del rapporto tra le due culture, quella del Paese di nascita, l’Italia, e quella delle sue origini familiari.

Igiaba Scego esemplifica molto bene lo stato di salute della nostra narrativa al femminile, testimoniandone la vivacità. Mi concentrerò qui sui romanzi recenti di tre scrittrici che si muovono su strade diverse e ci restituiscono un’idea più generale del quadro: Elisabetta Rasy, che pubblica con HarperCollins Italia Dio ci vuole felici. Etty Hillesum o della giovinezza (pagine 160, euro 18,00); Nicoletta Bortolotti, in libreria per lo stesso editore con Un giorno e una donna. Vita e passioni di Christine de Pizan, la prima scrittrice europea (pagine 496, euro 19,50); Elena Mearini, che congeda per i tipi della cagliaritana Arkadia Corpo a corpo (pagine 112, euro 14,00). Età differenti, generi letterari diversi, ma tutte concentrate su una questione cruciale per la nostra contemporaneità: l’identità.

Rasy può vantare, oltre a quella di romanziera, anche una storia significativa di saggista: in entrambi i casi vicenda autobiografica e storia delle donne s’intrecciano in modo mai ideologico con risultati notevoli. Anche qui la sua poetica s’impone sin dalle prime pagine: «Non de te fabula narratur, “il racconto parla di te”, come dicevano gli antichi, ma a te parla il racconto». Tutto comincia nel 1985 quando la scrittrice legge diari e lettere di Etty Hillesum, ebrea olandese morta ad Auschwitz nemmeno trentenne. Il fine è accendere un lumino funebre per una donna inghiottita dall’oblio, tanto più in questo caso, «dove la morsa della Storia incarnata dall’orrore nazista voleva togliere ai perseguitati (…) persino la possibilità di pronunciare la parola io». L’attenzione si concentra, però, sul periodo della spensieratezza di Etty. Colpisce soprattutto la qualità delle citazioni ricavate dalle pagine di un giovanissima donna che poco dovrebbe sapere del mondo e che invece sono per l’autrice continua sollecitazione al confronto. Senza dire di quello che appare come tema dominante: le sempre disattese promesse della giovinezza.

Interessantissimo il romanzo storico in forma epistolare di Bortolotti. Almeno per due ragioni: la materia scelta; il recupero d’una tradizione novecentesca italiana della scrittura al femminile di grande nobiltà. Un giorno e una donna ci restituisce la vicenda d’una donna straordinaria, Christine de Pizan: nata in Italia e figlia di un astronomo chiamato dal re a Parigi, ma soprattutto - l’ho appreso da questo libro - prima scrittrice europea, in un senso esattamente professionale, che illumina di sé e del suo grande ingegno il primo trentennio del Quattrocento. Una vita movimentata e fertilissima, durante la quale, nonostante le avversità, ha modo di imporre la sua immagine di donna di grande indipendenza e libertà: «Il sette novembre milletrecentonovanta il cielo di Parigi era un vassoio d’argento pulito da uno straccio di cenere. Avevo venticinque anni. Ero la vedova De Castel».

A rafforzare il senso di intimità tutta femminile che ci arriva dalle lettere tra una madre e una figlia, Bortolotti cita più volte in epigrafe Natalia Ginzburg, di cui però è, con la sua lingua elegante e antiquotidiana, l’antipode stilistica: forse, per la volontà di scandagliare il destino del personaggio entro grandi scenari, all’incrocio di cruciali eventi storici e politici, è meglio riferirsi ai precedenti smaglianti dell’Anna Banti di Artemisia e, soprattutto, dei romanzi storici di Maria Bellonci.

Romanzo della contemporaneità è invece quello di Elena Mearini, costruito assai suggestivamente attorno alla passione per la boxe e alle regole del ring. Mearini è figlia di quel Novecento che trova le sue leggi nella formula sartriana: «L’inferno sono gli altri». Ma anche maestra nel notomizzare rapporti disturbati e disturbanti: e a restituirceli in una lingua limpida ma intorbidita dalle metafore: «Muove la bocca a simulare un bacio, il rosso delle labbra è corallo in agonia. Bella e inquinata, commuove come un mare da salvare ». Corpo a corpo è ambientato in una palestra dell’hinterland milanese in una giornata qualunque. Due uomini: Stefano, ex pugile e professore di liceo, si presenta da Mario, proprietario della palestra e suo allenatore, per raccontargli la sua drammatica storia con Marta, e per provare a capirci qualcosa, leggendogli parti del diario di lei. Due donne: la stessa Marta e la sorella dannata, Ada, che finirà suicida. Stefano lo sa da subito. Quel diario è l’unica cosa che potrà salvarlo o finirlo del tutto: «Eccolo, la copertina blu e il racconto di un abisso che ci ha tolto ogni superficie». Una vita sconciata: del resto, la vita è tutto ciò che abbiamo, ma anche tutto ciò che dobbiamo patire.

Sciego, Rasy, Bortolotti e Mearini: autrici di età differenti, generi letterari diversi, ma tutte concentrate su una questione cruciale per la nostra contemporaneità: l’identità

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