lunedì 23 giugno 2025
Lo storico Carlo Spartaco Capogreco ha censito tutti i luoghi di internamento nelle province controllate dalla Rsi. Ebbero un ruolo «considerevole» nella "soluzione finale". Ma sono stati rimossi
Il campo di concentramento di Fossoli, nei pressi di Carpi (Modena). Fu realizzato dalla Repubblica sociale italiana (Rsi)

Il campo di concentramento di Fossoli, nei pressi di Carpi (Modena). Fu realizzato dalla Repubblica sociale italiana (Rsi)

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Il 30 novembre del 1943 è una data poco nota nella storia della persecuzione e dello stermino degli ebrei italiani. Eppure fu uno spartiacque. In quel giorno, infatti, fu emanata dal ministro dell’Interno della Repubblica di Salò, Guido Buffarini Guidi, l’ordinanza di polizia numero 5, che destinava ai campi di concentramento tutti gli ebrei a prescindere dalla nazionalità e prevedeva la confisca dei loro beni. Dal giorno successivo cambiò, dunque, in modo decisivo la strada seguita sino ad allora dal fascismo sulla “questione ebraica” e iniziò una vera e propria “caccia all’uomo”. Con quell’atto furono costituiti i campi provinciali che afferivano al campo di concentramento speciale di Fossoli, nel Modenese dal quale partivano i convogli destinati ai luoghi di sterminio.

Di questi luoghi e dell’ingranaggio di violenza e sangue di cui furono una ruota si occupa Carlo Spartaco Capogreco nel saggio I campi di Salò. Internamento ebraico e Shoah in Italia (Einaudi, pagine 448, euro 30,00) con cui lo storico prosegue e integra lo studio dedicato vent’anni fa ai Campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (uscito per lo stesso editore nel 2004 e tradotto in varie lingue). A Capogreco, che insegna Storia contemporanea all’Università della Calabria, si deve anche un pionieristico studio su Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista (Giuntina 1987), oltre che numerose monografie e contributi a opere collettive su Shoah, fascismo e Resistenza (Il partigiano Facio, Donzelli, 2007).

L’idea che muove questo nuovo saggio, scrive l’autore nell’introduzione, è quella di dare «una mappatura territoriale complessiva, ancora mancante, dell’internamento ebraico attuato dalla Repubblica di Salò» e «delle sue connessioni con la deportazione dall’Italia, condotta dalle autorità di occupazione tedesche, nel quadro della “soluzione finale del problema ebraico”». Diversamente dall’internamento “di guerra” attuato da Mussolini a partire dal 1940, spiega Capogreco, questa direttiva riguardava tutti gli ebrei e non solo gli stranieri, considerati alla stregua di agenti nemici. E fu, di fatto, l’«ingranaggio» che connesse il regime collaborazionista nato dopo l’8 settembre al progetto nazista. «Non a caso venne salutato subito con compiacimento dai tedeschi, i quali, pur continuando a riservarsi la “titolarità” delle deportazioni, ritennero che esse sarebbero state certamente facilitate dalla disposizione di Salò sull’internamento autonomo degli ebrei». I repubblichini ebbero di fatto “carta bianca”, come testimoniano le centinaia di “fogli di traduzione” emanati dalle autorità italiane, conservati - non senza «lacune clamorose», nota lo studioso – negli archivi.

Capogreco, dunque, ricostruisce la rete dei campi e i fili che li misero in connessione con l’attività di rastrellamento e poi di deportazione verso lo sterminio. Per effetto dell’ordinanza, campi provinciali vennero realizzati in ventidue delle cinquantotto province controllate dalla Repubblica di Salò: Asti, Borgo San Dalmazzo (Cuneo, attivo già dal 18 settembre in relazione alle prime, occasionali, azioni degli occupanti contro gli ebrei), Vercelli, Aosta, Calvari di Chiavari (Genova), Valle Crosia (Imperia), Bergeggi (Savona), Mantova, Sondrio, Venezia, Verona, Tonezza del Cimone (Vicenza), Vo’ (Padova), Monticelli (Parma), Reggio Emilia, Ferrara, Forlì. Bagni di Lucca, Marina di Massa (Apuania), Roccatederighi (Grosseto), Senigallia (Ancona) e Perugia. Allo scopo furono adibiti edifici i più disparati: ville, scuole, caserme, antichi manieri, alberghi, teatri, colonie marine o invernali, istituti religiosi cattolici e perfino sinagoghe e case di riposo ebraiche. Ad essi vanno inoltre affiancati cinque campi di internamento di civili preesistenti e riattivati allo scopo: Scipione (Parma), Bagno a Ripoli (Firenze), Civitella della Chiana (Arezzo), Pollenza (Macerata) e Civitella del Tronto (Teramo). Quelli del Sud come il già citato Ferramonti di Tarsia (Cosenza), erano ormai in mani alleate dopo lo sbarco in Sicilia. L’elenco – oltre a dare al lettore una plastica rappresentazione della diffusione capillare - fa capire anche che si trattava di luoghi lontani dalle grandi città, dove allo scopo funzionavano le prigioni. Come San Vittore a Milano, i cui prigionieri venivano condotti al binario 21 della stazione centrale con destinazione Auschwitz. I campi provinciali - ricorda l’autore – ebbero comunque un ruolo «considerevole» nella deportazione, contribuendo con un migliaio di deportati sui 7mila dalla Penisola tra 1943 e 1945. E questo nonostante il fatto alcuni rimasero per alcuni periodi pressoché vuoti, vista la discontinuità dei flussi e la ristrettezza dell’arco temporale in cui tali strutture operarono: si va dai pochi giorni del campo provinciale di Apuania agli otto mesi di quello di Padova. Deportazione e spoliazione furono attuate da diversi soggetti. Nella Rsi non da reparti ad hoc, ma dalla polizia ordinaria. Mentre nelle grandi città come Roma, Firenze e Milano agirono la Guardia nazionale repubblicana, la Milizia ferroviaria e confinaria, la polizia ausiliaria e anche gruppi irregolari, composti in gran parte da avanzi di galera, come la famigerata banda dello squadrista Mario Carità. I rastrellamenti si basarono sugli elenchi redatti nel 1938, sempre aggiornati, o su delazioni. E vennero eseguiti per strada, sui mezzi pubblici, negli ospedali o nei luoghi di culto.

All’atlante dei lager italiani è dedicata la quarta parte del saggio (arricchito da un apparato fotografico, carte, grafici, schede e un’appendice di documenti e testimonianze). I primi tre (“Un nuovo invisibile ghetto”, “Dentro il cono d’ombra” e “Tutti stranieri e nemici”) trattano del regime persecutorio dopo il 1938, al primo inasprimento che toccò soprattutto gli ebrei stranieri e al successivo crescendo. Non mancano i ritratti di vittime di quella spirale d’odio. Come Mario Spagnoletto, ebreo romano che nella sua tragica vicenda incarna la continuità della politica razzista e antisemita del fascismo. Fu, infatti, internato una prima volta nel 1940 per «attività contraria agli intessi della Nazione» e poi deportato da Fossoli ad Auschwitz nel 1944. Alle testimonianze dei sopravvissuti, rese a fatica, pochi credettero, come scrisse Primo Levi. L’unica resa al processo Eichmann da un’italiana, Hulda Cassuto Campagnano, venne addirittura travisata in patria con l’intento di minimizzare il ruolo giocato nello sterminio. Dopo il 1961, in Italia si è dovuto attendere il biennio 1988-1989, cinquantesimo delle leggi razziali e caduta del Muro - e la successiva uscita del Libro della memoria di Liliana Picciotto Fargion (1991) - per una prima presa di consapevolezza. Oggi la storiografia e le tante iniziative sulla memoria stanno facendo progredire la coscienza civile nazionale su questi temi, contrastando l’onda negazionista che tuttora tracima dai social. Ma i campi di Salò, risultano ancora oggi «l’emblema di una memoria mancata e di una storia trascurata a lungo»,

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