venerdì 1 novembre 2013
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Lui, Luigi Maria Lombardi Satriani è, con Ernesto De Martino, uno dei più conosciuti antropologi italiani, già docente alla Sapienza, a Messina, a Napoli, nonché preside della facoltà di lettere e filosofia dell’Università della Calabria, senatore nelle liste dell’Ulivo, oggi insegna all’Università Orsola Benincasa di Napoli; è studioso di folklore, religiosità popolare e cultura contadina, collocato in un contesto che potremmo definire di ispirazione gramsciana. Lei, Natuzza Evolo, è senza dubbio la più conosciuta mistica stigmatizzata italiana del ’900, madre di cinque figli, contadina e analfabeta. Lei è del 1924, lui è del 1936. A parte la comune "calabresità", apparentemente non c’è nulla che assimila l’una all’altro, eppure si può dire che le loro storie siano in qualche modo intimamente legate, fin dalla gioventù. Lombardi Satriani nasce e vive la sua infanzia a San Costantino di Briatico, in provincia di Vibo Valentia, «dove torno appena possibile», sottolinea compiaciuto mentre dialoghiamo accomodati nel salotto della sua casa romana. Poi aggiunge: «Paravati è a pochi chilometri e da bambino sentivo parlare di Natuzza dalle persone che andavano da lei. Io all’epoca non ci sono mai andato».In seguito, però, vi siete incontrati tante volte.«Tutto è iniziato per ragioni di studio. Insegnavo a Messina Storia delle tradizioni popolari e nel 1975 venni invitato come relatore a un convegno internazionale di studi antropologici a Palermo sul tema dei retaggi magici nella cultura popolare. Pensai a Natuzza e cominciai a studiarne il caso. Trovai testi che mi sembrarono acritici e fideistici e allora pensai che per la mia relazione dovevo conoscerla di persona».Che impressione ne ebbe?«Rimasi colpito dalla sua carica di umanità. Era disponibile, semplice e ti sapeva coinvolgere. Un incontro che per me fu di grande interesse umano, ma niente di più».Nessun coinvolgimento spirituale?«Ero lì per un interesse di studio. Sono rimasto lontano da quel tipo di approccio»Dal punto di vista religioso come le sembrò?«Tengo a precisare che ero e sono cattolico, anche se rivendico per me stesso la titolarità e la responsabilità delle mie scelte. Per me Natuzza era un’espressione alta di un cattolicesimo popolare, che mi sembrò lontana da quello ufficiale. Ecco, oggi, nelle parole di papa Francesco sento una vicinanza con quello slancio semplice che ho visto in Natuzza».Torniamo alla sua indagine "scientifica".«La relazione ebbe un buon impatto. Anni dopo, nel 1982, mi trovai con Mariano Meligrana a scrivere Il ponte di San Giacomo su come la società meridionale viveva la morte. Vi inserii un capitolo su Natuzza e le sue visioni dei defunti. Quel libro ebbe successo e vinse il Viareggio».Ma la svolta fu il documentario per la Rai con la sceneggiatrice e giornalista Maricla Boggio.«Fu Maricla a chiedermi di realizzare qualcosa insieme e io le proposi Natuzza (in questi giorni ha appena chiuso in bozza, con la stessa Boggio, un libro per Sellerio su San Gennaro e l’identità napoletana ndr). C’erano da girare delle immagini e pensammo di coinvolgerla. Bussammo alla sua porta. Le spiegammo quale era il nostro intento. Lei ne parlò col marito, Pasquale Nicolace, poi decise di darci fiducia. Affiancammo la sua intervista alle testimonianze delle persone che si recavano da lei: non solo contadini, massaie, operai e gente semplice, ma anche laureati, professionisti, docenti, magistrati, primari d’ospedale. Venne trasmesso nel 1985 in seconda serata su Rai 3 e fu un pieno di spettatori. Da quel momento la notorietà di Natuzza divenne nazionale. Con quel documentario e i dibattiti che ne seguirono io e Maricla Boggio abbiamo tratto un libro nel 2006».Nei numerosi incontri per il documentario maturò un’opinione diversa su Natuzza?«La mia ammirazione per lei crebbe enormemente. La sua era una dimensione incantevole di umiltà, di modestia. Negli anni seguenti andai altre volte a trovarla per questioni personali e familiari. Le comunicavo le mie preoccupazioni. Ogni volta lei mi rassicurava, era di grande ammaestramento, come se prendesse il mio dolore e lo caricasse su di lei per restituirmi amore, pace e serenità. Una cosa bellissima. L’ultima occasione per vederla fu quando le portai il libro scritto con Maricla Boggio. Quando morì c’ero anch’io in fila con migliaia di fedeli per accostarmi alla sua bara. In quei giorni credo sia stata beatificata per acclamazione».Sembra un percorso di iniziazione spirituale all’incontro con Natuzza?«E per me è stato di grandissima importanza. Non per il mio rapporto con Dio, ma perché Natuzza ha cambiato il mio rapporto col mondo. Mi ha portato a non avere atteggiamenti di giudizio, ai quali sono portato d’istinto. Mi ha insegnato a guardare l’altro con disponibilità anche quando non ne condivido il modello di vita, a dialogare sempre animato da una sorta di pietas cristiana. E so che questo non ci sarebbe stato se non l’avessi incontrata. Lei ti trasformava da dentro senza mai darti l’idea di volerti trasformare, semplicemente ti faceva sentire il mutamento del cuore come una necessità interiore. Una maestra di vita». ​
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