venerdì 17 novembre 2017
Robert O.Keohane riceve il premio Balzan per le relazioni internazionali: «La logica secondo la quale la vittoria dell'uno coincida con la sconfitta dell'altro è fallace»
Keohane: «Il multilateralismo è possibile. Anzi, necessario»
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Il professor Keohane non ama le previsioni. Su un’ipotesi, però, non ha dubbi: «L’Occidente, se perde la democrazia, ha perso tutto». Lo dice con una convinzione che non concede nulla al pessimismo, perché tutto il suo lavoro di ricerca fa perno semmai sul difficile equilibrio fra realismo e speranza, fra solidarietà e ragion politica. Il premio Balzan per le relazioni internazionali, che gli viene consegnato oggi a Berna, lo ha colto abbastanza di sorpresa: a lungo docente nell’Università di Princeton, nel New Jersey, il settantunenne Robert O. Keohane ha da poco lasciato l’insegnamento, ma continua a coordinare un gruppo di giovani studiosi formatisi sulle teorie da lui elaborate. Il suo libro fondamentale, After Hegemony (“Dopo l’egemonia”), porta la data del 1984 ed è da tempo considerato un classico sulla funzione degli organismi di cooperazione multilaterale. «Oggi come allora – spiega – il problema si delineava in modo abbastanza chiaro. Gli Stati nazionali, per la loro stessa natura, sono portati a perseguire il proprio interesse, in una dinamica che non manca di produrre contrasti a livello internazionale. Non potrebbe essere altrimenti, considerato che questa visione si fonda sulla premessa che la vittoria dell’uno coincida con la sconfitta dell’altro. È del tutto evidente, credo, che in una prospettiva simile ogni forma di collaborazione risulta preclusa. Ma c’è un problema».

Quale?

«Che questa logica è falsa e fallace. E non sul piano degli ideali, ma su quello dell’efficacia e della concretezza. Dalla seconda metà del Novecento a oggi le organizzazioni internazionali si sono affermate sulla base di urgenze globali che gli Stati nazionali non sarebbero stati in grado di gestire agendo ciascuno per proprio conto. Questioni molto prosaiche, se così ci vogliamo esprimere, che non hanno nulla a che vedere con l’immagine di vaghezza utopistica solitamente attribuita a queste istituzioni».

Su che cosa si fonda questa concretezza?

«Principalmente su tre aspetti. Il primo riguarda l’opportunità di avviare trattative commerciali collettive, in modo da ridurre i costi e ottenere maggiori vantaggi. In molti settori, a partire da quello energetico, gli Stati hanno tutto l’interesse a non procedere isolatamente, ma a costituirsi in organizzazioni con una finalità comune. Un secondo elemento, niente affatto trascurabile, è quello della credibilità. Spesso i governi nazionali si trovano nell’impossibilità di mantenere gli impegni assunti, per esempio, durante la campagna elettorale. La collaborazione con altri Stati può rappresentare un importante incentivo al conseguimento degli obiettivi concordati. Infine, il terzo ambito riguarda la raccolta e la condivisione di una mole impressionante di informazioni, che nessun governo riuscirebbe mai a incamerare per conto proprio. Quello che spesso l’opinione pubblica bolla come eccesso di burocrazia è, in realtà, uno dei benefici inavvertiti della cooperazione».

Sì, ma agli occhi del cittadino comune il sospetto di inefficienza rimane.

«Sì, è un fatto indiscutibile e che, per questo, deve es- sere analizzato con lucidità. Il punto è, a mio avviso, che l’inefficienza non deriva dalla struttura delle organizzazioni multilaterali, ma da scelte politiche deboli o, se preferisce, dalla mancanza di queste scelte. Un caso emblematico è offerto dalla storia economica dell’Unione Europea. La decisione di adottare una moneta unica, maturata nel contesto di estremo entusiasmo tipico degli anni Novanta, non è stata accompagnata da un disegno coerente in campo fiscale. I risultati sono quelli che il vostro Paese, l’Italia, conosce fin troppo bene: in assenza di un sistema fiscale unitario, l’Eurozona è segnata da sperequazioni che rischiano di annullare i presunti benefici della moneta unica. Il problema, però, nasce a livello decisionale, non strutturale».

Questo è il motivo per cui, nel corso del tempo, agli organismi intergovernativi si sono affiancate le organizzazioni
internazionali di origine privata?
«Uno dei motivi, senz’altro. In termini generali, un organismo intergovernativo finisce per prestare maggior ascolto agli interlocutori più influenti e non è raro che, specie in campo economico, finisca per essere privilegiato il punto di vista delle nazioni o comunque delle realtà più ricche. Le organizzazioni non governative, al contrario, possono muoversi con maggior libertà, sostenendo meglio le ragioni di chi si trova in condizioni di svantaggio. Si tratta di un meccanismo di pesi e contrappesi molto delicato, per certi aspetti analogo a quello che lega gli Stati nazionali e gli organismi multilaterali. Abbiamo bisogno degli uni e degli altri, su questo non può esserci ambiguità. Di conseguenza il pluralismo è indispensabile pure all’intero delle organizzazioni di cooperazione internazionale».

Un obiettivo ambizioso, specie in economia.
«Non solo in economia. Penso alle sfide poste dal cambiamento climatico e dai processi migratori, due fenomeni che nessun Paese può illudersi di gestire in solitudine. Ormai sappiamo per esperienza che le soluzioni classiche, ciascuna delle quali improntata a una visione esclusiva dei rapporti internazionali, non sono adeguate rispetto alla complessità della nostra epoca. Proprio per questo dovremmo imparare a rifuggire dalla promessa di soluzioni semplici e immediate, che nel migliore dei casi non tengono conto delle conseguenze dei provvedimenti di volta in volta proposti. Non è più possibile considerare risolutivo l’appello all’emotività dell’opinione pubblica».

Eppure i referendum sono all’ordine del giorno, in Gran Bretagna come in Catalogna.
«Ad accomunare questi due casi è la mancanza di consapevolezza sulle conseguenze di quella che viene spacciata come una soluzione autonomistica. A distanza di pochi mesi, la Brexit si è già tradotta in una clamorosa serie di svantaggi per la Gran Bretagna, che si trova a negoziare con la Ue in una condizione di sostanziale inferiorità. Qualcosa del genere potrebbe accadere anche in Catalogna, dove gli errori obiettivamente compiuti dal premier spagnolo Rajoy nei giorni del referendum sono stati messi in secondo piano dalla fuga del presidente catalano Puigdemont a Bruxelles. Con il risultato, appunto, di rafforzare la posizione di Madrid».

Come spiega allora il successo dei populismi?
«Nella sua connotazione essenziale, il populismo si fonda sull’assenza pressoché totale di mediazione fra il leader e il popolo di cui il leader stesso si considera espressione. È un processo oggi molto diffuso, ma che ha conosciuto una delle sue prime affermazioni proprio in Italia, con l’ascesa di Mussolini. Trovo molto preoccupante il ritorno di uno schema tanto elementare e grossolano, che ancora non è bilanciato da un’analisi spassionata degli eventi. Troppo facile condannare come “deplorevoli” gli elettori di Trump, occorre fare qualcosa per comprendere le loro ragioni. Isolando gli estremisti e gli intolleranti, ma senza mai dare nulla per scontato. La posta in gioco non è il governo di questo o quel Paese, ma il futuro stesso della democrazia. E l’Occidente, se perde la democrazia, ha perso tutto».

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