domenica 15 marzo 2020
Era ricoverato a Milano per complicazioni da coronavirus. Aveva 93 anni
Vittorio Gregotti in una foto recente

Vittorio Gregotti in una foto recente - Ansa

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È morto a Milano all'età di 92 anni Valerio Gregotti, grande architetto italiano; era ricoverato in ospedale con una grave polmonite. Su Facebook il ricordo dell'archistar Stefano Boeri: "Se ne va, in queste ore cupe, un Maestro dell'architettura internazionale; un saggista, critico, docente, editorialista, polemista, uomo delle istituzioni, che, restando sempre e prima di tutto un architetto, ha fatto la storia della nostra cultura. Concependo l'architettura come una prospettiva: sull'intero mondo e sull'intera vita. Che grande tristezza".

L'aspirazione a un rigore nordico e la ricerca di una semplicità limpida che desse un tono di familiarità agli spazi urbani. Su questi registri si è retta la ricerca architettonica che ha fatto di Vittorio Gregotti (Novara 10 agosto 1927, Milano 15 marzo 2020), uno dei più noti progettisti italiani e gli ha permesso di imporsi sulla scena internazionale dal secondo dopoguerra. C'è stato chi lo ha accusato di progettare carceri, non luoghi, e il suo quartiere Zen di Palermo è tra le opere più criticate degli ultimi sessant'anni in Italia: espressione di degrado sociale e manifesto di un'architettura intesa come proclama ideologico, non come servizio teso a risolvere specifici problemi di un sito specifico.

Eppure col suo studio, Gregotti International, attivo dal 1974, ha firmato oltre milleseicento progetti presenti in più di una ventina di paesi, in Europa, America, Africa, Asia; ha vinto competizioni internazionali e compiuto interventi su scala urbana di grande importanza, come nel quartiere residenziale di Cannaregio a Venezia, nel quartiere Bicocca a Milano (uno dei maggiori progetti europei di questi decenni, con residenze, ambienti universitari, spazi amministrativi e per la ricerca scientifica e col grande teatro degli Arcimboldi), i progetti per il nuovo distretto finanziario di Pudong e per Puijang, nuova città di “stile italiano” (a Shanghai in Cina).

In ogni caso Gregotti ha compiuto progetti in cui la visione stereometrica si articola in scarti in altezza e profondità, in ritmi ripetitivi che si affermano come continuità sul cui tessuto si innestano momenti di pausa e variazioni volte a produrre accenti e sottolineature. Il suo linguaggio ha certamente portato avanti con decisione il messaggio razionalista, ma ha anche cercato di rifuggire dalla mera imposizione di un'idea preconcetta. Per esempio nel progetto di Puijang, coi corsi d'acqua che scivolano tra gli edifici ha mirato a ritrovare il carattere antico della città cinese, proprio nel momento in cui questo correva il rischio di essere definitivamente soverchiato dal globalismo deteriore che si sovrappone al genius loci e lo cancella.

Questi recenti progetti in Cina, come tanti altri lavori di Gregotti International, hanno un carattere collettivo: l'architetto ha operato insieme con diversi partner, tra cui spiccano Augusto Cagnardi e Michele Reginaldi. In questo, Gregotti può essere considerato tra i pochi in Italia che si sono dotati della molteplice capacità operativa tipica dei grandi studi di oltre oceano, con abili associati e decine di collaboratori specializzati in diversi settori, così da progettare con competenza “dal cucchiaio alla città”.

E non a caso al suo nome sono legate opere quali sedie e poltrone di design, piani urbani come quelli di Arezzo, Scandicci, Torino, piani paesaggistici come quelli dei parchi del Pollino, del Gargano, di Portofino, lavori di grafica per case editrici di grido come Electa o Skira, stand espositivi per aziende di primo piano come IBM e Ferrari, negozi, boutique e show room per catene internazionali come Trussardi, Prada, Missoni, disegno di interni per grandi navi da crociera del gruppo Costa.

Vittorio Gregotti è stato anzitutto un intellettuale la cui formazione ha avuto due derivazioni. La prima è conseguente all'esperienza maturata nell'azienda tessile della famiglia, dove, come amava spiegare, ognuno aveva una responsabilità propria e al proprietario (suo padre) spettava con mano ferma di coordinare e valorizzare il lavoro dei dipendenti. La seconda è discesa dalla sua collaborazione con lo studio BBPR (Banfi, Belgioioso, Peressutti, Rogers), che fu tra gli araldi del razionalismo in Italia. Gregotti in particolare fu vicino a Ernesto Nathan Rogers, col quale condivise la passione per la filosofia che lo portò ad avvicinarsi all'esistenzialismo di Enzo Paci e alla fenomenologia di Husserl. E la sensibilità per il pensiero filosofico lo ha indotto da un lato a ricercare strumenti che dessero regole all'architettura: che questa non fosse espressione di estro personale ma frutto di elaborazione fondata su principi seppure aperta al divenire. Dall'altra lo ha spinto a impegnarsi sul piano teorico: ha esercitato la docenza universitaria a Venezia, Milano, Palermo, Tokyo, Buenos Aires, San Paolo, Losanna, Cambridge, Harvard, Filadelfia, Princeton, M.I.T., e ha pubblicato una trentina di libri (tra i primi Territorio dell'architettura, del 1966; il più recente, Quando il moderno non era uno stile, del 2018).

Si è anche dedicato all'edilizia per il culto, con le chiese di S. Clemente a Baruccana di Seveso e di S. Massimiliano Kolbe a Bergamo (quest'ultima vincitrice dell'edizione 1999 del concorso “Progetti Pilota” della CEI). Sono due esempi assai significativi del suo modo di progettare. La prima, di Baruccana, ha una forma a “T” rovesciata in cui l'alto elemento verticale che percorre tutta la lunghezza dell'edificio funge da imponente lucernario. La seconda, uno dei suoi progetti meglio riusciti, nella parrocchia Beata Vergine Maria di Loreto a Bergamo, ha una pianta centrale su cui si innesta un tamburo circolare. Anche in quest'ultima l'architettura è impostata sull'elaborazione dello spazio come espressione della luce: se all'esterno un porticato lineare genera un raccordo tra il nuovo edificio e la chiesa preesistente, all'interno una semisfera traslucida che sembra galleggiare sospesa al centro diffonde una luminosità pacata mentre un foro obliquo garantisce che a mezzodì i raggi del sole cadano frontalmente sull'altare.

Quella di Gregotti è un'architettura austera, lontana dalla tipica progettazione espressionista desiderosa di apparire con toni sgargianti. Intendeva essere un'architettura per il servizio sociale: certo non sempre ha raggiunto l'obiettivo, poiché uno dei servizi dell'architettura consiste nel rendere spazi di valore estetico, non solo di efficacia funzionale. Ma resta come testimonianza di un'epoca e di una cultura che ha inteso sprovincializzare l'Italia del secondo dopoguerra e ha cercato di evitare che i personalismi si traducessero in anarchia e disordine. Anche per questo, come ha detto a questo giornale pochi anni fa, Gregotti aspirava a città in cui a farla da padrone non fossero più le automobili, probabilmente la massima espressione dell'esibizionismo egocentrico nel mondo contemporaneo. Forse anche questa è l'espressione di una visione astratta e utopica. Ma riesce difficile non condividerla.

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