venerdì 3 febbraio 2023
Fino al 5 febbraio al teatro Carcano di Milano il multiforme artista riporta in scena a 30 anni dal debutto il suo esilarante e provocatorio "Oylem Goylem": "Occorre liberare l'uomo dagli ideologismi"
L'attore Moni Ovadia in scena al teatro Carcano di Milano fino al 5 febbraio

L'attore Moni Ovadia in scena al teatro Carcano di Milano fino al 5 febbraio

COMMENTA E CONDIVIDI

Due ore di aneddoti esilaranti e fulminante autoironia, vorticosa musica klezmer e sonorità zingare, comicità e protesta civile, canto dolente della sinagoga e tragedia (i pogrom russi, la Shoah), sacralità e irriverenza. Il tutto recitato, cantato, suonato, ballato, in un’alternanza stupefacente di umori e di lingue, tra l’italiano storpiato delle comunità ebraiche dell’Est e quella mescolanza unica al mondo che è l’yiddish, inafferrabile miscuglio di tedesco, ebraico, polacco, russo, ucraino, rumeno e quant’altro… È sempre difficile circoscrivere il “cabaret espressionista” di Moni Ovadia, e non fa eccezione Oylem Goylem, spettacolo nato giusto trent’anni fa e da ieri sera riproposto a Milano al Teatro Carcano (fino al 5 febbraio). Trent’anni e non li dimostra, anzi, l’attualità è schiacciante fin dal titolo, Oylem Goylem, il mondo è matto: “Oylem in yiddish vuol dire il mondo ma anche la gente, e Goylem rievoca la figura del Golem, il gigantesco robot della mitologia ebraica dell’Est, forzuto ma anche stupido, goffo, pazzo. Oggi gli uomini sono tutto questo, direi…”.

Moni Ovadia, attore, cantante, compositore, “meglio uomo di teatro e attivista per i diritti umani”, nato 76 anni fa in Bulgaria da famiglia ebraica sefardita poi emigrata a Milano quando era bambino, è rimasto indelebilmente intriso della cultura yiddish mitteleuropea con cui oggi infiamma il pubblico: “Cos’è cambiato nello spettacolo? Che io ho trent’anni di più, e che due dei cinque strumentisti klezmer, quelli che suonano la fisarmonica e il cymbalon, sono rom, nati uno a Costanza e l’altro a Bucarest. In più al violoncello c’è una donna, l’abbiamo vestita da maschio per non incorrere nell’ira dei rabbini, dico scherzando, in realtà è l’omaggio a un famoso film yiddish del passato, L’ebreuccio col violino, dove la protagonista era appunto una donna vestita da uomo. Straordinario è il cymbalon, strumento a corde che vengono percosse con dei martelletti dal rom Marian Serban, un virtuoso fenomenale…”.

Obiettivo (raggiunto) è trascinarci tutti nella magica condizione di ogni ebreo errante, quell’esilio fisico ma soprattutto mentale che abbatte i confini e ci rende universali: “L’intento dello spettacolo è glorificare l’esilio”, che qui non ha nulla di negativo, anzi “è condizione di splendore dell’essere umano: sono persuaso da sempre che quando vivremo in esilio tutti, anche a casa nostra, allora vivremo in pace”. Chi è in esilio non appartiene, tutto il mondo è la sua casa. “L’Est europeo costituì una vera e propria nazione dell’esilio e per questo fu il punto più straordinario che l’anima ebrea ha toccato – spiega Ovadia –, il modo di vivere, le relazioni, la spiritualità hanno raggiunto il vertice”. Popoli che sapevano vivere a cavallo dei confini, “senza tutte le realtà costrittive del nazionalismo, burocrazie, polizie e fili spinati, barriere, identitarismi selvaggi, cose che oggi sono tornate. Era un mondo sublime, non a caso è stato annientato”. Così come l’yiddish, prima della Shoah parlato da ebrei polacchi, russi, lituani, americani, argentini, oggi condannato a “un interminabile crepuscolo”, mai morto del tutto ma quasi dimenticato.

Eppure l’yiddish e gli altri “suoni dell’esilio” sono una condizione dello spirito: “Durante un viaggio sul traghetto per le isole Eolie un vecchio emigrante italiano di ritorno dall’Australia guardando il mare mi disse: what a peccato! Once the mare was very polito!”. Eccolo il miracolo, disfarsi del proprio idioma per parlare la lingua del mondo. “È questo che ha permesso agli ebrei di sviluppare quell’estro straordinario, che non era un talento originario ma nasceva dalla condizione dell’essere minoranza, dell’essere perseguitato”. Lo spiega bene il racconto chassidico di un grande maestro, letto da Ovadia sul palcoscenico: “Ora, nell’esilio, lo Spirito santo scende più facilmente che nel tempo in cui era in piedi il Santuario. Un re scacciato dovette andare ramingo, se arrivava in una povera casa, dove veniva alloggiato miseramente ma accolto da re, il suo cuore era lieto! E così, proprio così, fa Dio da quando è in esilio”.

Un Dio sempre presente, ne è abitato persino l’ateismo di Ovadia. “Dio ride”, dice il Talmud, e Isacco è il futuro del verbo ridere, ossia Abramo chiamò suo figlio “Riderà”. Così gli ebrei, il popolo che da millenni dondola e si lamenta davanti al Muro del pianto, riconoscono l’umorismo del Creatore e lo rivolgono contro se stessi. Esilaranti le storielle narrate dalla voce rauca di Moni Ovadia che imita la parlata e le movenze, senza esclusione di colpi: “L’umorismo yiddish è una filosofia che attraverso aforismi e brevi motti smaschera i protervi. Per prima cosa ridi di te, perché tu sei l’idolo più pericoloso che puoi fare di te stesso”. La battuta comica è la via d’uscita quando si crea l’opposizione “o tu o io”, ti impedisce di prenderti sul serio. E non risparmia nessuno, senza remore né timore di accuse di antisemitismo mette a nudo i vizi e schernisce i personaggi che li incarnano (dal vecchio usuraio alla “yiddishe mame”, incontentabile e cannibalesca mamma della cultura ebraica), “non ha paura nemmeno di scatenarsi contro Mosè e il Padreterno… che però sa ridere”.

Oggi che il mondo è matto e la guerra scuote l’Europa, il sarcasmo di Ovadia ci addita l’assurdo. “Più che matto il mondo è disastrato – corregge –, colpa dei rigurgiti nazionalisti, come se due guerre mondiali non fossero bastate. La più grande meraviglia dell’essere umano, che meraviglioso non è, è di essere universale, la sua unica identità è la bellezza del molteplice, occorre rimboccarci le maniche e ricostruire l’uomo finalmente liberato dagli ideologismi, un’autentica pestilenza”. Ovadia è sempre fuori dal coro, “amato da moltissimi e odiato da pochi”, sgradito al mondo sionista per la sua difesa dei palestinesi, uomo di sinistra ma autore impietoso di La bella utopia (sugli orrori del comunismo sovietico che nulla hanno da invidiare a quelli del nazifascismo), oggi veemente contro una guerra in Ucraina che “è stata preparata fin dal 2014 per ragioni di controllo sull’egemonia mondiale, da una parte c’è il capitalismo statunitense e britannico, dall’altra il capitalismo russo e cinese”.

La corsa al riarmo dell’Ucraina è un affare troppo ghiotto per permettere un negoziato, sostiene, e chiarisce: “Io nella Russia di Putin sarei in galera da anni, e in casa mia ospito tre profughe ucraine, ma va detto che due presidenti degli Usa avevano promesso a Gorbaciov che la Nato non si sarebbe allargata di un solo pollice oltre la ex Germania dell’Est, poi è raddoppiata. Come si negozia con bugiardi matricolati? O puntiamo alla pace o finisce male”.Storie e drammi reali, che però sul palcoscenico si trasfigurano nella giostra tragicomica e grottesca dei suoi personaggi.

Che – i casi della vita – proprio nello stesso edificio del Carcano un giovanissimo Ovadia incontrò per la prima volta: “Cinquant’anni fa un grande rompiscatole, Rudy Luttwak, volle a tutti i costi che lo seguissi e per togliermelo dai piedi lo feci. Mi portò in corso di Porta Romana nel portone stesso del teatro, ma al piano di sopra, dove aprì disinvoltamente una porticina. Rimasi incantato, era una piccola sinagoga nascosta e dentro c’era un pezzo di mondo di quell’ebraismo di cui io avevo letto solo sui libri”, fatto di vecchi ebrei che vociavano, litigavano, scherzavano, con quel tipico accento yiddish... “Ho rubato da lì tutto quello che potevo rubare”. Per quei “bellissimi vecchi” che oggi non esistono più fece anche il suo primo spettacolo, “risero a crepapelle, ma la volta dopo quando tornai mi accolsero in silenzio. Chiesi al più mansueto, il signor Schultz, il perché di quella ostilità. Mi rispose: gvardi, signor Ovadia, io parlo qvesta volta soltanto, poi qvando c’è lei io non parlo più. Lei viene qvi, ruba e non dà il percentuale. Con i primi introiti feci un’offerta alla sinagoga”. Quel mondo, oggi, rivive al piano di sotto.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: