giovedì 25 gennaio 2018
Il direttore della «Civiltà Cattolica» spiega in un saggio la strategia della Chiesa in uscita e la logica rivoluzionaria della misericordia
Spadaro: «Così Francesco sta cambiando il mondo»
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“Marxista” o “populista”, “profetico” o “rivoluzionario”: sono tante le definizioni che sono state date dell’operato di papa Bergoglio. Qualunque giudizio si esprima, è innegabile che la sua figura sia ormai quella di un leader in grado di esercitare un’enorme influenza sulla politica internazionale. Nell’intricato schema della geopolitica globale, i suoi decisi – e spesso poco convenzionali – interventi hanno cambiato il tono del dibattito, generando entusiasmo e stupore, oltre a numerose critiche. La diplomazia di Francesco sa essere “profetica”. Antonio Spadaro, direttore della “Civiltà Cattolica”, accanto ad autorevoli commentatori delle vicende politiche vaticane e non (fra i quali la giornalista di “Avvenire”, Lucia Capuzzi), ricostruisce le strategie attraverso cui Francesco e la sua “Chiesa in uscita” stanno mutando radicalmente il confronto sugli equilibri mondiali in un libro intitolato “Il nuovo mondo di Francesco. Come il Vaticano sta cambiando la politica globale” (Marsilio, pagine 240, euro 17,00) da oggi in libreria. In questa pagina anticipiamo una parte del saggio introduttivo di padre Spadaro intitolato “Sfida all’apocalisse”.



Integrare, dialogare, generare sono i tre verbi che Francesco ha usato per lanciare «la sfida di “aggiornare” » l’idea stessa di Europa alla luce di un «nuovo umanesimo». Tre verbi, tre processi. Questa dinamica inclusiva allarga «l’ampiezza dell’anima europea». Francesco sa che quest’anima nasce dall’incontro di civiltà e di popoli. Sa dunque che l’Europa è «più vasta degli attuali confini dell’Unione»: gli oltre cinquecento milioni di europei, rappresentati dai ventotto paesi membri dell’Unione europea, non esauriscono l’Europa, che è chiamata a diventare luogo vitale di «nuove sintesi». Perché l’Europa non è una «cosa», ma un «processo». Non è un sostantivo, ma un verbo. L’Europa non «è», ma «si fa». A questo punto è chiaro, con assoluta evidenza, perché il papa abbia scelto l’Albania e la Bosnia come prime tappe dei suoi viaggi nel vecchio continente: non ha scelto il luogo dell’anima definita dal centro. Per Francesco la definizione viene dalle richieste di accesso, dalle possibilità aperte nel futuro, dalle pressioni ai lati e ai fianchi. «L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale», ha detto il papa. Le radici sono sempre meticce e sporche di terra. Quello della purezza delle origini è un mito cieco e sordo.

L’Europa non è il frutto di un «laboratorio» diplomatico, ma di incontri e scontri, guerra e pace, sangue sparso e olio versato sulle ferite. Le radici si sono consolidate nel corso della storia, integrando culture più diverse e persino «senza apparente legame tra loro». Dunque, il volto dell’Europa non si distingue «nel contrapporsi ad altri, ma nel portare impressi i tratti di varie culture e la bellezza di vincere le chiusure». L’integrazione trova poi nell’essere solidali «il modo in cui costruire la storia»: essa non ha nulla a che fare con l’elemosina, ma è la «generazione di opportunità». Dialogare è ciò che permette di ricostruire il tessuto sociale, perché riconosce l’altro da sé – lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura – come un interlocutore valido, un soggetto da ascoltare, che sia considerato e apprezzato. Il papa sogna un nuovo umanesimo europeo che si costruisca avendo un «vivo senso della storia » e della memoria. L’opposto di questo umanesimo sono la paura, l’esclusione, il sospetto, che producono «viltà, ristrettezza e brutalità» e soprattutto un senso di vischiosa «meschinità». Essere «meschini » è quanto di peggio possa accadere per Francesco che ama l’anima ampia e amplia le anime strette. «La creatività, l’ingegno, la capacità di rial- zarsi e di uscire dai propri limiti appartengono all’anima dell’Europa»: ecco nel suo discorso subito affiorare il riferimento all’eccentricità, al superamento dei limiti e dei confini. L’Europa è se stessa perché sa andare oltre se stessa. La sua «casa » si costruisce andando oltre le ceneri dei «tragici scontri, culminati nella guerra più terribile che si ricordi». Questa visione dunque è profondamente legata al divenire, al superamento dialettico di muri e ostacoli. L’Europa è un «processo» tuttora in atto all’interno di «un mondo più complesso e fortemente in movimento».

I suoi padri hanno «architettato» un «illuminato progetto» che è sempre in costruzione. Occorre dunque verificare non se la casa regge, ma se la sua realizzazione segue quel sapiente progetto. Ecco il parere del papa: «Quell’atmosfera di novità, quell’ardente desiderio di costruire l’unità paiono sempre più spenti; noi figli di quel sogno siamo tentati di cedere ai nostri egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari». Perché questo è accaduto? Perché – ha affermato il papa, coerente con il suo approccio alla realtà – l’Europa è «tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società; dinamismi capaci di coinvolgere e mettere in movimento tutti gli attori sociali (gruppi e persone) nella ricerca di nuove soluzioni ai problemi attuali, che portino frutto in importanti avvenimenti storici; un’Europa che lungi dal proteggere spazi si renda madre generatrice di processi». Se l’Europa considera se stessa come uno «spazio», allora prima o poi verrà – ed è già venuto – il momento della paura, del timore che lo spazio sia invaso. Lo spazio va innanzitutto difeso. Se invece l’Europa è da considerarsi come un processo in fieri, allora si comprende come esso metta in movimento energie, accettando le sfide della storia. Allora anche difficoltà e contraddizioni «possono diventare promotrici potenti di unità».

Ragionamenti analoghi andrebbero fatti per ogni continente, tenendo conto delle specificità e particolarità che il papa ha dimostrato di saper riconoscere e rispettare. Certo è che il «nuovo umanesimo» di cui egli ha parlato in contesto europeo rappresenta un punto di riferimento più largo rispetto ai confini di quell’area geografica. Integrare, dialogare e generare nuovi processi: questi tre verbi sembrano sottesi a quanto il pontefice va dicendo in tutti i quadranti della terra – specialmente quelli più periferici. [...] La speranza è quella di aver chiarito in quale senso non debba scandalizzare il ruolo politico incarnato da papa Francesco: esso è in ogni sua parte esplicazione di un compito, della tensione religiosa che deve percorrere la Chiesa. Allo stesso tempo non si deve aver timore a parlare di Bergoglio nei termini di «leader rivoluzionario », perché «rivoluzionario» è colui che porta nel mondo la logica della misericordia.

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