martedì 7 ottobre 2014
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​Passai tre giorni spalla a spalla con lui a disporre l’allestimento della sua antologica che nell’estate del 1989 curai per la riapertura della Rocca Malatestiana di Cesena dopo vent’anni di restauri. Calzoni da operaio e maglietta, Igor Mitoraj compulsava con gli occhi la meravigliosa architettura che, dagli spalti, permette nei giorni di cielo limpido di vedere lontano la linea del mare. Era felice mentre "costruiva" il suo teatro di ombre abitate dagli dèi; appendemmo a venti metri da terra, all’inferriata del torrione maschio della Rocca una grande corazza di gesso pesantissimo: guardavo la gru e le facce degli operai che avevano la tipica espressione di chi sta pensando «questo è matto» e mi chiedevo se non fosse imprudente esporre quel gesso al rischio delle piogge e al guano degli uccelli che, lì, aveva un colore rosso scuro perché nella corte del castello c’era (e c’è ancora) una pianta di sambuco. Mitoraj ha per tutta la vita cercato di esprimere una classicità "aperta", esistenziale, dove la forma è compiuta anche se si espone a tagli, fratture, sottrazioni di parti che, un tempo, avrebbero sconfessato l’ideale classico di bellezza. Testori, che fu tra i primi ad accorgersi di Mitoraj, metteva in guardia dal passo falso di definire queste sculture dei "frammenti", perché questo le avrebbe consegnate a un’estetica anacronistica, romantica; di conseguenza, mentre il postmoderno furoreggiava coi suoi improbabili storicismi, smentiva anche la tentazione di annettere Mitoraj alla schiera dei "citazionisti". Forse, come Argan scrisse di Canova, si potrebbe parlare per Mitoraj di un gioco metalinguistico sul classico, però avendo in mente che egli era uno slavo. Dico era, perché, dopo una malattia incurabile, ieri Igor se ne è andato all’età di settant’anni. Ha fatto tempo, però, a inaugurare la sua ultima grande antologica, a Pisa, dove sono esposti anche cinquanta gessi che formano una sua ideale gipsoteca.Il premio per la nostra fatica all’epoca fu vedere l’effetto delle oltre trenta sculture disposte negli spazi della Rocca Malatestiana: un’atmosfera magica, ogni scultura sembrava abitare da sempre nel punto dove lui l’aveva collocata (il suo istinto gli faceva sentire lo spazio come un centro metafisico e onirico). La scenografia era così "perfetta" che per anni le fotografie di quell’allestimento vennero usate per le guide turistiche di Cesena e della Romagna. Andammo a cena e, con un certo tremore (ero abbastanza giovane da sentirmi, pur essendogli diventato amico, in soggezione) gli feci una domanda sciocca: «Ti è piaciuto il mio testo per il catalogo?». Mi guardò fisso negli occhi accennando un sorrisino d’imbarazzo e rispose un secco "no". Errare è umano, ma perseverare, dicono, è diabolico. Mi ci volle dunque una certa incoscienza per chiedergli perché di quel rifiuto. Mi disse, laconico, «hai usato la parola "morte" e io non riesco a leggere cose dove ci sia questa parola». Mi tornò alla mente un fatto che avevo forse sottovalutato: Mitoraj era nato nel 1944 a Oederan, in Germania, da genitori polacchi, il padre ufficiale della legione straniera francese aveva conosciuto la madre di Igor mentre era deportata e ai lavori forzati; la donna, dopo il bombardamento di Dresda e la fine della guerra, tornò in patria a Cracovia e allevò da sola il bambino. La risposta di Igor mi fece pensare che il lager fosse stato, nonostante la tenerissima età, una sorta di "incubatrice" che aveva lasciato nella sua vita un fardello della memoria di cui non poteva liberarsi. Gli chiesi anche se nella sua scultura inseguiva la perfezione, un ideale classico da ritrovare sia pure mostrandone cicatrici, tagli, reliquie. La risposta fu ancora lapidaria e disarmante: «Se pensassi di aver realizzato una scultura perfetta, mi ucciderei il giorno dopo». Era abbastanza per questa volta, il resto della cena "parlammo d’altro". All’inaugurazione Testori celebrò da par suo quei giganti che si ergono e sfidano il cielo, l’eternità. Erano davvero come risorte, sia pure allo stato di terra soltanto, le sculture di Mitoraj. Teste enormi, fasciate, innestate di forme strane; a volte le metteva a dormire appoggiandole dolcemente sul prato; oppure, coppie di amanti che guardano l’orizzonte; e maschere o sagome di teste, tagliate a livello della fronte o prive di occhi, rivolte verso un infinito che non possono vedere ma possono sentire, respirare. Alcune teste sono completamente bendate, come se avessero subito un intervento di chirurgia plastica ricostruttiva; sui busti e i toraci incide forme, scava piccoli loculi dove depone cose, simboli, immagini, forme astratte, i corpi diventano case della memoria. E risultano ancor più struggenti e magiche queste sculture quando le realizza nel marmo bianco, preso poco lontano da dove si era stabilito, a Pietrasanta. Erano indubbiamente invenzioni poetiche cariche di pathos e malinconia quelle che hanno reso celebre nel mondo Mitoraj (parecchie città hanno sue sculture in permanenza nelle piazze).Claude Lévi-Strauss coniò un neologismo per dire l’attuale stato di disorientamento antropologico: "entropologia", ovvero una entropia antropologica che misura gli effetti dell’"assenza di fondamenti" che segna il nostro tempo. E la scultura di Mitoraj tende a limitare questo smarrimento imponendo una maschera all’horror vacui, vuole dargli una parvenza di umanità. Le bende che fasciano le sue sculture possono far pensare anche, come scrisse Marco Vallora, a cinture metafisiche che resistono al franare dell’uomo e del mondo.
Mitoraj si era formato all’Accademia di Belle Arti di Cracovia e aveva seguito i corsi di Tadeusz Kantor, il grande drammaturgo della Classe morta. Kantor un giorno aveva portato in palcoscenico una motocicletta, sostenendo che quel mito della velocità era l’equivalente moderno della Nike ellenica. Mitoraj mi raccontò il suo stupore di fronte a quel coup-de-théâtre; l’effetto che ebbe su di lui, però, non fu di portarlo su strade pop o neo-dada, ma, esaurita l’esperienza Kantor, lo spinse a ritrovare il sentimento dell’enigma e lo struggimento che generano le ombre della Grecia proiettate sul Baltico. Era anche questa una forma del "rimpatrio", un "ritorno a Ithaca" che Kantor, tuttavia, interpretava ancora col metro dell’avanguardia: «Dovevo essere pronto a non tornare come il Figliol prodigo alla Casa da tempo abbandonata, alla casa e a tutte le sue "effigi"». Mitoraj, però, aveva invertito la marcia e a quelle "effigi" aveva deciso di dare un volto nuovo ancorché antico. O allusivamente antico, perché, in realtà, esse parlano delle immense ferite del nostro tempo.
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