mercoledì 15 marzo 2017
Noto al grande pubblico per il ruolo dell'ispettore Fazio nel «Commissario Montalbano», ha debuttato al teatro Mercadante di Napoli con «Giuseppe Z.» di cui è autore
Peppino Mazzotta. l'ispettore Fazio in «Montalbano», a teatro con «Giuseppe Z.» (foto Marco Ghidelli)

Peppino Mazzotta. l'ispettore Fazio in «Montalbano», a teatro con «Giuseppe Z.» (foto Marco Ghidelli)

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«Il successo strepitoso di Montalbano? Certo, fa piacere, ma il problema è che la sovraesposizione: la Rai continua a replicare all’infinito le puntate vecchie e sembra che noi attori facciamo solo quello». Insomma, per Peppino Mazzotta, 46 anni, tra gli storici interpreti della fiction dei record di Raiuno, il ruolo dell’integerrimo ispettore Fazio, per quanto da lui amato «come un fratello », un tantino ingombrante lo è. Occhi scurissimi e voce gentile, l’attore calabrese sta per girare a breve altre quattro nuove puntate del Commissario Montalbano, ma tornerà anche a interpretare un ruolo totalmente opposto, quello di Bruno Corona, figlio di un boss della ’ndrangheta, nella seconda serie della fiction di Canale 5 Solo. Ma è il teatro la vera passione di Mazzotta che non ha mai smesso di recitare e scrivere per il palcoscenico. Ieri sera ha debuttato al Teatro Mercadante di Napoli con il suo Giuseppe Z., in scena sino al 19 marzo, prodotto dallo Stabile partenopeo. Si tratta della storia vera di un emigrato calabrese, Giuseppe Zangara, che nel 1933 a Miami sparò al neoeletto presidente Roosvelt, mancandolo, ma ferendo nella folla 5 persone e uccidendo il sindaco di Chicago. Processato più volte, finirà sulla sedia elettrica.

Come mai Peppino, ha scelto questa storia?

«Me l’ha segnalata un docente di storia contemporanea. Erano gli anni della crisi, delle bombe degli anarchici, ma Zangara era un analfabeta, che guardava il mondo con la sua testa e agiva da solo e senza filtri. La storia nel mio testo diventa una narrazione di fantasia. C’è un ribelle non meglio definito, e poi un presidente, un agente e tutto avviene in un luogo e in un tempo non dichiarati. Il personaggio che metto in scena è un uomo semplice, un umile braccato dalla vita, in missione per il riscatto di tutti i sottomessi. Quei cinque colpi di pistola sono il punto di contatto tra la storia piccola di un anonimo emigrato analfabeta e la storia grande dei potenti del mondo».

C’è molta attualità in questo testo.

«Zangara è un emigrato italiano, come quelli che oggi vengono dal Nordafrica: ha fatto un grande viaggio ed ha subito pesanti forme di xenofobia e razzismo. Poi in quegli anni c’era una grandissima crisi economica che metteva in risalto le faglie di un sistema capitalistico che, anche allora come oggi, non funzionava perché lasciava tanta gente indietro. Sono spunti di riflessione, soprattutto vedendo l’America di Trump».

Lei è molto legato alla sua Calabria, che spesso porta in scena a teatro e al cinema come nel drammatico “Anime nere”.

«È una terra talmente ricca e complessa... Io sono nato in un paese piccino, Domanico, in provincia di Cosenza. I miei genitori sono contadini, e io fino a 19 anni coltivavo la terra e allevavo gli animali. Sono stati gli anni della mia formazione, e quella cultura me la porterò dietro fino alla tomba. Sono cresciuto in mezzo alla natura, in una dimensione armonica coi suoi ritmi, e in una cultura contadina fatta di principi molto solidi. Però, quando sono stato catapultato a 20 anni in una dimensione diversa ho faticato molto ad allinearmi alla vita urbana e a farmi accettare».

Come è iniziata la sua carriera?

«Io ho tante cose mancate, ho fatto il Conservatorio e non mi sono diploma- to corno perché ho lasciato, e lo stesso ho fatto con il calcio e architettura. L’unica cosa che non ho lasciato è la recitazione: dopo essermi formato in un’accademia di teatro a Palmi, mi sono trasferito a Napoli dove ho fondato la compagnia Rosso Tiziano e poi nel 2003 i Teatri del Sud, insieme a Francesco Suriano e Elisabetta Napitelli Alegiani. Napoli è un laboratorio teatrale fantastico, con una grande valenza sociale».

La vediamo poco al cinema. “Montalbano” rende forse difficili le cose perché troppo identificativo?

«In un certo senso sì, ma non per la fiction in se, ma perché la Rai ha deciso di crearle una sovraesposizione talmente esagerata. La giriamo una volta ogni due anni e la gente pensa che siamo sempre in Sicilia. Montalbano per la Rai è una sorta bancomat: ogni volta che lo passa, incassa cifre enormi in pubblicità. E crea un problema di sovraesposizione per gli attori».

L’affetto del pubblico le fa piacere?

«Certamente, anzi, ne sono felice. E sono affezionato a Fazio, anche se è diverso da me. È un personaggio che mi ha influenzato sull’idea di chiedere molto a se stessi, di essere sempre operativi. Io lo sono molto meno...».

Ma come si spiega il successo crescente della serie? Pur avendo toccato nelle ultime due puntate temi molto spinosi.

«C’è la scrittura di Camilleri, che eleva la fiction rispetto al panorama italiano, poi la bellezza della Sicilia e i caratteristi siciliani che sono uno più bravo dell’altro. E poi Montalbano, un personaggio straordinario: è un uomo integro, che non è in vendita, che si assume la responsabilità delle situazioni sempre, che non scarica mai altrove i suoi pesi, un uomo in cui tutti hanno voglia di riconoscersi. La sua figura e la delicatezza della scrittura di Camilleri fanno da passepartout a temi anche molto difficili, che non diventano scandalo, ma spunti di riflessione».

E Fazio?

«Assomiglia molto a Montalbano. Fazio e il commissario sono due figure che si completano, condividono il modo di guardare il mondo, hanno la stessa etica. Anche se l’ispettore è uno che segue tutte le regole, mentre Montalbano, che è un uomo a tutto tondo, sa quando le regole vanno scavalcate per ottenere un giusto risultato ».

Invece il personaggio di Solo è un “cattivo”. Quali responsabilità ci sono nel rappresentare il bene e il male in fiction così popolari?

«Fazio per me è l’eccezione, io a teatro e al cinema ho sempre interpretato personaggi più oscuri. Credo che anche i personaggi negativi, se dotati delle opportune sfumature psicologiche, possano fornire spunti di riflessione importanti. Quel tipo di umanità purtroppo esiste, magari sono persone cresciute in un certo ambiente e sono diventati quello che sono».

Le sue riflessioni hanno a che fare anche con l’avere aderito al buddismo?

«I miei genitori sono molti cattolici, ma io ho incontrato questa filosofia quando ero molto giovane: è stata una chiave per leggere le cose, per leggere me e avere un sostegno. Sono convinto che i principi fondamentali di tutti gli scritti sacri si incontrino. E papa Francesco, che è la figura più forte a livello planetario, sul tema dell’apertura e del dialogo, sarà sempre di più colui che farà la differenza».

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