giovedì 14 febbraio 2013
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Blanca è una ragazza minuta e timida. Ha i capelli corvini, come gli occhi di un nero lucente. Rimesta il caffè nella tazza con lentezza, mentre mi attende in una delle caffetterie eleganti del Pronaf. Mi stringe la mano con calore e sorride con affetto, anche se sa che dovrà rivivere per l’ennesima volta il dramma che si porta dentro. Lo ha raccontato decine e decine di volte, alla polizia, ai magistrati, ai giornalisti, ai convegni. «Choco vorrebbe così. E per me è un modo di sentire vicino mio marito», dice prima di ritornare con la mente e le parole al 13 novembre 2008. «Era il secondo anno di guerra – racconta –. I crimini erano diventati quotidiani. A gennaio, arrivano le prime minacce. Armando non ci badava. Diceva che non si sarebbero azzardati ad ammazzare un giornalista». Si sbagliava. Armando Rodríguez, alias Choco, era uno dei cronisti di punta del Diario di Juárez, il principale quotidiano cittadino. Da un giorno all’altro si era trovato catapultato in prima linea nel conflitto. Nessuno gli aveva detto che d’ora in poi sarebbe stato un reporter di guerra, anche se di una guerra formalmente non dichiarata.
Armando seguiva la mattanza con scrupolo e rigore. Forse troppo. Ai narcos i suoi articoli non piacevano. Avevano provato a intimidirlo. Ma Armando non voleva mollare. A fermarlo ci hanno pensato allora una raffica di pallottole sparate a bruciapelo mentre usciva di casa, in auto, come ogni mattina. «Ero in cucina quando ho sentito gli spari. Mi sono domandata: "Che cosa accade?". Ma non sono uscita subito a vedere. Sono rimasta come paralizzata qualche minuto, come se la mia mente si rifiutasse di capire. Ho provato a chiamare Armando sul cellulare ma non rispondeva. Allora, d’un tratto, ho compreso. E ho chiamato l’ambulanza». La più grande dei tre figli della coppia era in macchina col papà: la stava accompagnando a scuola. La piccola, di 8 anni, è rimasta ferita lievemente alla gamba. «Quando sono scesa e l’ho abbracciata era sotto choc. È stato difficile per lei», aggiunge Blanca Martínez de la Rocha, anche lei giornalista come Armando, per il giornale diocesano. «Dopo la morte di Armando ho pensato di andarmene, di chiedere asilo negli Usa ma alla fine sono rimasta. È la mia città», conclude sfinita. Non serve che aggiunga altro. Il resto della storia me lo raccontano al Diario di Juárez dove, all’entrata, spicca una foto gigante del Choco. A fianco quella di un altro ragazzo, il fotografo Luis Carlos Santiago, massacrato due anni dopo, il 16 settembre 2010. Entrambi gli omicidi sono tuttora insoluti. Il giornale è di fronte all’Hotel Lucerna, sempre nel quartiere Pronaf. La redazione occupa l’intero primo piano dell’edificio, curato e moderno. La scrivania di Armando è di fronte all’ufficio del coordinatore. Tutto sul tavolo è rimasto come il 12 novembre 2008: le foto appese dei figli, la tazza per il caffè, un mazzolino di fiori, ora secchi. Sul monitor, spento, la scritta: "Choco is here" (Choco è qui). «È stato un colpo durissimo per tutti – dice Rocío Gallegos, collega e amica di Armando –. Era la prima volta che attaccavano un giornalista. Ormai purtroppo siamo diventati bersagli». Dal 2000, in Messico, sono stati massacrati 82 giornalisti, secondo i dati di Reporter Sans Frontiers, 16 sono svaniti nel nulla. Di questi ben 67 durante il mandato di Calderón. In media, ogni due giorni, c’è un attacco contro i media, hanno denunciato "Articulo 19" e "Freedom House". E gli stessi Usa hanno espresso preoccupazione per la situazione della libertà di stampa nel Paese. Le autorità, però, finora hanno risolto meno del 7 per cento dei crimini. E i reporter continuano a morire. Per sopravvivere, i cronisti si sono dati una serie di regole base come non firmare alcuni articoli, pubblicare contemporaneamente certe notizie, non recarsi sui luoghi dei crimini. «Perché corri il rischio di trovare gli assassini ancora nei paraggi. È accaduto più volte di trovarsi faccia a faccia con un commando di Los Zetas venuti a riprendere il cadavere…», conclude Rocío. Alle sue spalle c’è l’enorme lavagna su cui il giornale tiene il conto dei morti ammazzati.
Un lavoro coraggioso e altrove impossibile. Mentre a Juárez, infatti, la stampa continua a riportare gli episodi di violenza, ci sono «intere zone di silenzio» nella nazione. Ovvero, le notizie sui crimini non vengono date intenzionalmente. «Se leggi un giornale in Tamaulipas o Durango è difficile che riportino i morti ammazzati. I direttori o gli editori sono chiari: della violenza non si può parlare», racconta l’inviata di Proceso Marcela Turati. Quando le domando perché, mi fissa qualche minuto prima di rispondere. Poi dice: «Pensa a chi comanda lì…». Los Zetas (il cartello dominante nell’Est) non gradisce, dunque, che vengano riportati i suoi massacri. Né quelli dei rivali. Lo stesso sta accadendo nella zona di Veracruz, dove gli attacchi ai media sono stati più feroci nell’ultimo anno. La banda di Sinaloa, che controlla quasi completamente Juárez, invece, non ha interesse a imbavagliare i media. A meno che qualche giornalista non diventi eccessivamente scomodo o curioso. O si trovi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Quando domando agli amici reporter messicani se hanno paura, mi rispondono con una scrollata di spalle. «Non ci pensiamo. È l’unico modo per continuare, del resto è l’unico lavoro che sappiamo fare», scherzano. Rivolgo lo stesso interrogativo a un taxista, altra categoria alquanto esposta, dopo la visita al Diario. «Non ho molta scelta. È l’unica cosa che so fare. Ho più paura di lasciare la mia famiglia senza mangiare».
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