martedì 19 settembre 2017
Per lo scrittore romeno, «c’è un tratto comune tra il nazismo e il comunismo, a cui sono scampato io, e l’islamismo di oggi: tutti coalizzano le frustrazioni con l’utopia». Il dialogo con Kanterian
Norman Manea, nato nel 1936 in Bucovina, nel 1986 fuggì da Ceausescu e riparò prima in Germania, poi negli Stati Uniti

Norman Manea, nato nel 1936 in Bucovina, nel 1986 fuggì da Ceausescu e riparò prima in Germania, poi negli Stati Uniti

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È un libro non premeditato, Corriere dell’Est (Il Saggiatore, pagine 252, euro 24,00), nato da uno scambio epistolare tra due dotti romeni espatriati: lo scrittore di origini ebraiche Norman Manea e il filosofo di origini armene Edward Kanterian. Lo spunto è stato addirittura occasionale: nel 1996 Kanterian recensì il controverso commento di Manea alle memorie di Mircea Eliade, Felix Culpa, sottolineando l’ambigua posizione di quell’indiscusso vate romeno della cultura a proposito del nazismo. Nomea gli rispose e nacque un saltuario dialogo a distanza su tutti i grandi temi culturali e politici del nostro tempo, fino al 2009, quando prese forma l’idea di farne un libro, uscito ora in Italia, con un’aggiunta che arriva a comprendere temi attualissimi come l’elezione di Trump, l’escalation nucleare della Corea del Nord, il terrorismo islamico. Corriere dell’Est sarà presentato oggi a Milano alla Feltrinelli Duomo alle 18.30, dove i due autori proseguiranno dal vivo il loro dialogo. Norman Manea, nato nel 1936 in Bucovina, aveva appena cinque anni quando fu internato con la famiglia in un lager nazista, dopo la guerra visse sotto il regime comunista di Ceausescu facendosi notare come scrittore scomodo, finché nel 1986 riuscì ad espatriare, prima a Berlino poi, nell’88, negli Stati Uniti, stabilendosi a New York dove insegna tuttora Letterature del-l’Est Europa al Bard College. Molto apprezzato come scrittore, ha avuto ampi riconoscimenti a livello internazionale, il più recente è il premio Fil nel 2016 e nel 2002 in Italia ha ricevuto il premio Nonino. Mette nei suoi romanzi, come Il ritorno dell’huligano, una forte componente autobiografica e nello stesso tempo simbolica, di chi ha vissuto sotto opposti autoritarismi trovando il suo spazio nel “rifugio magico” dell’arte, e nei suoi saggi, come Clown, ritrae con lucidità e ironia le minacce di un mondo votato all’autodistruzione, ma coltivando sempre in cuore un barlume di speranza.

Benché non sia stato programmato come tale, Corriere dell’Est è un saggio di grande attualità che esce in un momento cruciale: mette in guardia contro tutte le derive totalitaristiche proprio in questo momento di grave crisi della democrazia.

«Incoraggiando un approccio molteplice alla realtà, la democrazia ha portato a inevitabili eccessi, fra cui la distorsione dei criteri oggettivi di valutazione, a favore di un individualismo sfrenato che interpreta e manipola la verità. Le politiche isteriche e contraddittorie hanno provocato danni incredibili, come la Brexit, uno choc che ancora non abbiamo assorbito. E pensare che con tanta fiducia avevo goduto dell’ingresso in Europa delle nazioni dell’Est, in particolare della Romania. Non so se sia stato un bene per l’Europa, questo allargamento a Paesi non abituati alle regole democratiche, ma per la Romania è stato l’avveramento di un sogno. Noi ci siamo sempre sentiti i latini dell’Est, sia come lingua che come cultura, la nostra capitale morale era Parigi».

Fra gli eccessi all’origine della crisi della democrazia lei indica l’esasperato soggettivismo promosso dalle nuove tecnologie, puntando il dito su «Miss Mass Media, frivola, cinica e onnipresente concubina dell’età moderna».

«Con uno smartphone in mano, chiunque si sente al centro dell’universo, non ha bisogno di nessuno per indirizzare le proprie idee, basta cercare a casaccio per trovare qualcosa che ti piace. Così il ruolo degli intellettuali è svanito: oggi in America è scomparso il dibattito intellettuale sulla scena pubblica. Chiunque può sostenere tutto e il contrario di tutto, circolano le fake news più sfacciate anche se smentite platealmente».

Uno dei protagonisti di questo andazzo è Donald Trump, per definire il quale lei ha riproposto la metafora usata nel suo libro Clown del ’95.

«Ero stato ispirato da Fellini, dalla sua definizione del clown “dal volto bianco e spettrale che spaventa i bimbi”: mi sembrava una metafora perfetta sia per Hitler che per Ceausescu, che avevano trasformato i loro Paesi in circhi del terrore. Oggi il nuovo clown è Trump, il suo esperimento narcisista della sfida al buon senso esprime una scissione culturale profonda e burlesca, derivata dallo scadimento dell’istruzione e dall’arroganza del denaro della società mercantile».

Lei affronta anche il tema dell’islam e dei suoi rapporti con l’Occidente, stigmatizzando «la retorica di largo consumo» che attribuisce a tutte le culture lo stesso peso. «Sono d’accordo con Saul Bellow, che nell’intervista che gli ho fatto, pubblicata con il titolo Prima di andarsene, ha dichiarato: “Le culture non sono tutte uguali: nella letteratura del Ghana c’è un Proust?”. Questa sua provocazione ha fatto scandalo, ma è la verità. Questo non vuol dire che in futuro non ci potrà essere un Proust ghanese, ma per il momento la differenza rimane. E non si può passare sotto silenzio che ci sono culture assassine, tradizioni culturali riprovevoli, capaci di distruggere il mondo. L’islam vive nel passato, mentre l’ebraismo e il cristianesimo si sono evoluti, adeguati ai tempi. Apprezzo molto papa Francesco, è un vero riformatore, perché pur restando all’interno della Chiesa promuove la libertà di pensiero. Ma se i cristiani non sono più quelli delle crociate, rinnegando i metodi violenti, nell’islam prevale un’intensa patologia del rancore in grado di coalizzare frustrazioni e utopia. Non fu diversa la situazione quando s’instaurarono nazismo e comunismo, non è diverso il fermento del fanatismo islamico moderno».

In questo libro un po’ pamphlet e un po’ memoir, lei parla anche di sé, dei suoi autori di riferimento, del suo agnosticismo, della sua «identità plurivalente e confusa»…

«Dico anche che mi sento un privilegiato a non possedere un’identità chiara, sono un ibrido, il che non rappresenta un impoverimento: la dimensione umana mi pare l’unico elemento davvero importante. Non mi sento invece un privilegiato in quanto agnostico, anzi ne sono turbato. Sono convinto che Dio rappresenti un’istanza profonda dell’essere umano: senza di Lui ci si sente davvero soli».

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