venerdì 11 maggio 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
Un parlage, lo definisce lui. Una chiacchierata il cui andamento, per di più, sarebbe da imputare alle debolezze dell’età (la sua è la classe del ’24, sfoggiata con naturale eleganza). In realtà è chiaro a tutti che il discorso pronunciato da Ezio Raimondi come ringraziamento per l’assegnazione del premio Bonura è una lezione, autorevole e affascinante come solo le lezioni dei maestri sanno essere. "Letteratura, ancora maestri?" è del resto il tema della tavola rotonda organizzata da «Avvenire» presso la Sala Rossa del Lingotto e moderata da Giuseppe Lupo. L’occasione, anzitutto. Giunto alla sua terza edizione, il premio Bonura - andato negli anni scorsi a Tzvetan Todorov e a Goffredo Fofi - intende valorizzare le esperienze più significative nell’ambito della critica militante. Anzi, «combattente», come si compiace di definirla Raimondi. Ed è proprio questa circostanza a rendere particolarmente orgoglioso lo studioso bolognese, la cui lunga attività parrebbe essersi svolta essenzialmente in un contesto accademico. «Ma io - ribadisce il diretto interessato - mi sono sempre considerato un critico al presente. Non avrei potuto fare altrimenti, dato che ho lavorato giorno per giorno a fianco dei giovani. Quando ci si rivolge a loro, è impossibile non parlare al futuro. È l’unico modo per fare sì che il passato sveli il suo eterno presente».Magistrale, no? Eppure Raimondi preferisce parlare di sé come di un «insegnante lettore» che per oltre cinquant’anni ha continuato a interrogarsi sulla possibilità di dare un senso all’esistenza attraverso il rapporto con la letteratura. Nel corso del suo intervento, intessuto su frequenti richiami al Calvino delle Lezioni americane, il professore stupisce a più riprese chi lo ascolta. Nessuna nostalgia per quello che è stato, rivendica. E subito argomenta: «Nella stagione che si apre nuovi linguaggi si aggiungeranno alla letteratura, la cui importanza diventerà ancora maggiore. L’interiorità, la lunga durata, gli affetti riscoperti, la memoria: queste e molte altre sono le cose che la letteratura riesce a dire e che altri linguaggi, invece, non arrivano ad esprimere. Quando leggiamo, ci confrontiamo con una parola che si fa luce anche quando è rimpianto. Ed è in questa dimensione che dovrebbe muoversi la scuola, aiutando i ragazzi a riconoscere nelle letteratura qualcosa che riproduce un senso nel momento stesso in cui ci permette di inventarlo insieme con gli altri. Un obiettivo che resta interdetto alla parola mediatica, perché in un simile territorio può avventurarsi solo la parola letteraria».La provocazione viene subito raccolta dalla scrittrice Paola Mastrocola. Certo, tutto cambia e non è detto che peggiori. Quel che resta da capire è se la scuola, e insieme con essa la società, sappiano ancora misurarsi con i maestri. «Oggi a un insegnante si chiede di saper "motivare" gli studenti - esemplifica -, ma chi ha avuto la fortuna di avere un vero maestro sa bene che incontri del genere non si apprezzano in termini di motivazione. Ricordo le lezioni di Angelo Jacomuzzi qui, all’Università di Torino: lo si ascoltava per un’ora e ci si sentiva smossi nella propria interiorità, portati più in alto, messi a confronto con qualcosa che non è solo terrestre. Un maestro non motiva, muove. Forse è per questo che noi, oggi, di maestri non vogliamo sentir parlare».Anche il critico Massimo Onofri è convinto che la questione sia di portata più ampia, non solo letteraria. Per quanto, poi, proprio la letteratura aiuti a capire che cosa sta accadendo. Il confronto suggerito è quello tra il De Magistro di Agostino e la Lettera al padre di Franz Kafka. «Quando ci poniamo la questione dei maestri - puntualizza Onofri -, in effetti è sulla paternità che ci stiamo interrogando. E sulla nostra possibilità di crescere figli che non siano, secondo l’espressione di Savinio, semplici "tombe del fantasma del padre". Nell’orizzonte attuale la carenza di maestri è un dato indiscutibile, purtroppo. Restano alcuni modelli, personaggi di riferimento importanti come sono stati, in passato, Cesare Garboli e Luigi Baldacci. A cercare, si trova. Basta non illudersi con le ricette delle scuole di scrittura...».Ecco, i maestri non vanno confusi con gli istruttori. È il monito lanciato dal poeta Davide Rondoni, che ne approfitta per una notazione fulminante: «Per riconoscere un maestro bisogna sentirsi in pericolo - afferma -. Allo stesso modo, il maestro autentico è quello che ti fa capire come, all’interno del suo insegnamento, sia insito il rischio che tu ti smarrisca, perdendo qualcosa di te stesso. In questo, il Novecento è stato davvero un secolo di orfani, che prima hanno riconosciuto nella propria condizione una forma di opportunità offerta dal pericolo, ma poi si sono arresi a una consuetudine allegra, per cui nessuno rischia più niente». Per finire, un dubbio: «Scusate - interroga Rondoni -, ma se veramente c’è tanta penuria di maestri, come mai ogni volta che muore un ottuagenario ripetiamo che un altro maestro ci ha lasciato? Delle due, una: o non siamo messi così male oppure stiamo scontando gli errori di una generazione che ha fallito». Grazie della domanda, come si dice in questi casi. Ma per rispondere ci vorrebbe un maestro.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: