giovedì 31 marzo 2016
Maalouf: «L’identità è accumulo»
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L’Académie Française ha assegnato ad Amin Maalouf il seggio numero 29, riservato in precedenza a Claude Lévi-Strauss, l’antropologo che più di ogni altro ha guidato l’Europa nella conoscenza e nella comprensione delle altre culture. Un passaggio di consegne perfetto, dato che il franco-libanese Maalouf – nato a Beirut nel 1949 e dal 1976 residente a Parigi – è da tempo considerato il portavoce di una mentalità cosmopolita e meticcia, che non nega il concetto di identità ma lo rielabora in modo dinamico e personale. In Italia per inaugurare la nona edizione del festival veneziano Incroci di Civiltà, lo scrittore (che proprio alla vicenda dell’Académie Française si è ispirato per il suo Un fauteuil sur la Seine, “Un seggio sulla Senna”, edito di recente da Grasset) sostiene infatti che l’identità, oggi, si costituisce «per accumulo, non per discrimnazione». In che senso? «Chi emigra da un Paese all’altro deve essere messo nella condizione di aderire pienamente alla nuova cultura nella quale si inserisce senza per questo dover rinnegare quella da cui proviene. Se riuscissimo a stabilire e rispettare il principio di questa doppia cittadinanza, compiremmo un passo decisivo, che permetterebbe di uscire dalla situazione, pericolosissima, nella quale ci troviamo attualmente. Smentendo le previsioni del passato, l’identità contemporanea non si basa purtroppo su una pluralità di punti di vista. Al contrario, c’è un ritorno sempre più ossessivo e violento a una visione unilaterale della realtà, con la quale ci si identifica in modo acritico, considerando come un nemico chiunque non voglia adeguarsi». Dal suo tono si direbbe quasi sorpreso. «Sarò sincero: non è il mondo nel quale avevo sperato, non è la società che la mia generazione aveva immaginato. Eravamo convinti che con un po’ di saggezza, razionalità e umanità saremmo riusciti a vivere in pace gli uni con gli altri, a dispetto di ogni differenza. Non è andata così, e questo mi rattrista molto. Viviamo in un mondo che sembra non contemplare più il dialogo, che non distingue le sfumature e che, appunto, non accetta quella molteplicità di prospettive ed esperienze dalla quale, nella mia convinzione, scaturisce la verità. Vede, a metà dagli anni Settanta, quando ho lasciato il Libano, ero molto critico rispetto al modo in cui veniva gestita la convivenza tra le diverse comunità presenti nel mio Paese. Già allora ero persuaso che l’obiettivo a cui tendere fosse un altro». Quale? «Il superamento del particolarismo che ciascuna comunità finisce per rivendicare e, di conseguenza, il costituirsi di una società che fosse semplicemente umana, senza necesità di ulteriori qualifiche. Ma ora anche in Europa le singole comunità si fanno via via più aggressive, in un crescendo di frammentazione e opposizione sempre più evidente». Sta dicendo che l’Europa è sotto attacco per la sua debolezza? «Non voglio essere frainteso. È vero, ci sono responsabilità che risalgono all’epoca coloniale. Ed è innegabile che l’Unione europea avrebbe bisogno, e non da oggi, di una struttura più efficace sul piano politico ed economico. Come vediamo anche in questi giorni, troppo spesso decisioni cruciali sono prese non dall’Unione, ma da Stati di medie o addirittura piccole dimensioni. L’Europa potrebbe fare di meglio, ma il problema non è l’Europa». Si riferisce al terrorismo? «Al processo di radicalizzazione, al riaffermarsi di una mentalità identitaria, a tutti i problemi di cui si dibatte in questo momento. Possono esserci, caso per caso, motivazioni locali di natura politica o sociale, ma l’origine di questi fenomeni è unica e coincide con la crisi senza precedenti in cui si trova il mondo arabo. È un panorama desolante, di disintegrazione morale e ideale, un’impasse che può essere più o meno accentuata da altri fattori. Il dato principale resta però drammaticamente immutato: quello che accade a Parigi o a Bruxelles è, in sostanza, una conseguenza delle divisioni e delle rivalità all’interno della società araba». Nel suo ultimo romanzo, I disorientati, descrive il ritorno impossibile di un intellettuale arabo nel Paese da cui è partito anni prima: è un segno di resa?  «È una tentazione, a volte anche molto forte. Ma non credo che vada assecondata. Semmai, è proprio la desolazione del nostro tempo a richiedere un impegno maggiore, a spronarci a lottare di più per i valori dell’umanesimo o, se si preferisce, per riportare nel mondo un minino di decenza e di rispetto. Sarà un cammino lunghissimo, del quale non sono destinato a vedere la conclusione, ma un giorno gli esseri umani si stancheranno di farsi la guerra a vicenda, non ne potranno più di odiarsi e ammazzarsi. E a quel punto, finalmente, si renderanno conto di appartenere tutti alla medesima avventura». Quale ruolo possono avere le religioni in questo percorso? «Sono un fautore della laicità che, se intesa in modo corretto, non implica affatto la cancellazione dell’esperienza religiosa dall’orizzonte sociale. La laicità, secondo me, deve articolarsi lungo tre linee. Anzitutto, nessun cittadino può essere discriminato in base alla sua appartenenza religiosa. In secondo luogo, le varie confessioni non possono essere classificate come dominanti o dominate. Infine, alla religione non va attribuito un ruolo direttamente politico, ma deve essere garantita la sua presenza discreta in ambito sociale. Quando non assume atteggiamenti a sua volta dogmatici, la laicità è il fondamento delle società moderne».
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