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Andrea Lucchetta - archivio
Da oggi all’8 giugno si terrà la decima edizione del Memoria Festival, che avrà luogo a Mirandola. Sono le “Isole” del pensiero, della scienza, della letteratura, dell’arte, quelle esplorate dal Memoria Festival, la manifestazione promossa e organizzata dal Consorzio del Festival della Memoria, in collaborazione con le case editrici del gruppo Mondadori Libri. Anticipiamo qui l’intervento dell’ex pallavolista e capitano della Generazione di Fenomeni Andrea “Lucky” Lucchetta, insieme a Luca Cantagalli, che si terrà sabato 7 giugno alle ore 19 alla Tenda della Memoria. La conferenza sarà intitolata “Nessuno può vincere da solo”.
Nella pallavolo è scritto nelle regole: servono tre tocchi per attaccare. Non si può schiacciare da soli, serve una squadra. Ricezione, alzata, attacco. Un gesto spettacolare nasce sempre da un passaggio, da una fiducia accordata, da un’intesa costruita. Anche il muro, gesto difensivo e potente, richiede collaborazione, sincronismo, comunicazione. Nessuno può arrivare a quel terzo tocco da solo. Nel basket, dove l’individualità può esplodere in un coast to coast, il passaggio rimane essenziale. L’assist è l’arte del donare: chi passa rinuncia alla gloria per costruire qualcosa di più grande. Come nel calcio, nella pallanuoto, in tutti gli sport di squadra, ogni ruolo è interconnesso. Il centravanti, il centroboa, lo schiacciatore vivono di palloni ricevuti, di spazi creati, di sacrifici compiuti da altri. Ma questo principio va oltre il campo. Nessun allenatore può vincere da solo: la tattica, l’idea, la strategia contano poco se non si sanno ascoltare i bisogni reali dei giocatori. Chi non ha mai sentito il peso di una sconfitta o l’adrenalina di un ultimo punto può avere difficoltà a guidare chi li vive ogni giorno. Ma anche i grandi ex campioni non bastano da soli: servono staff preparati, staff tecnici, medici, psicologi, preparatori, fisioterapisti. In particolare questi ultimi - troppo spesso dimenticati - sono angeli silenziosi che rimettono in piedi corpi affaticati, ricuciono muscoli, ascoltano paure. Sono le mani che aiutano l’atleta a ritrovare fiducia nel proprio corpo. Vincere, nello sport, è un gesto corale. Anche quando è uno solo a toccare la palla o a tagliare il traguardo. È sempre frutto di un sistema di persone che hanno dato, che hanno “passato” qualcosa: una palla, un consiglio, un gesto, un supporto. Ed è nel mondo paralimpico che questo principio si esprime nella sua forma più alta, più nobile, più toccante. Qui, il concetto di squadra non è solo legato alla tattica o al risultato. È un atto di solidarietà continua. Gli atleti paralimpici devono spesso utilizzare ausili specifici - protesi, carrozzine da gara, carrozzine da basket, slitte, sci adattati - che vanno progettati, testati, modificati con cura sartoriale. Ogni disabilità è diversa, ogni corpo ha le sue esigenze. C’è un lavoro tecnico e umano enorme dietro ogni gesto atletico. Eppure, l’obiettivo è lo stesso: far sognare e far performare l’atleta, permettergli di esprimersi, di competere, di vincere. Pensiamo agli atleti non vedenti, che corrono guidati da un altro essere umano legato a loro da una cordicella e da una fiducia totale. Il traguardo è uno solo, ma ci si arriva in due. È una delle immagini più potenti dello sport: chi guida non corre per sé, corre per l’altro. E l’altro si affida, si lascia guidare, si mette nelle mani di chi lo accompagna. Nessuno dei due vince da solo. In quel gesto di passaggio, in quella corda che unisce, c’è l’essenza più vera dello sport: donarsi per far vincere l’altro. Che sia un assist sul campo o una mano tesa nella vita, il principio è lo stesso. Non si può vincere da soli perché la vittoria, quella vera, non è solo un numero sul tabellone. È la somma di fiducia, dedizione, cura, amore per ciò che si fa e per chi lo fa con te. Ecco perché, dietro ogni medaglia, dietro ogni impresa, c’è un mondo invisibile ma indispensabile. Ci sono i volontari, i tecnici, i tifosi, gli amici, le famiglie. Ci sono coloro che credono, che supportano, che tifano nel silenzio o che magari non compaiono mai in una fotografia, ma che rendono possibile ogni sogno sportivo. In fondo, il passaggio è il gesto più nobile dello sport: passare un pallone, un testimone, una possibilità. È dire “io ci sono per te”, è mettersi al servizio dell’altro. È il filo che lega l’atleta olimpico e quello paralimpico, il professionista e l’amatore, il giovane esordiente e il veterano. È il senso ultimo dello sport, e forse anche della vita.