sabato 29 ottobre 2016
Una monografia sul grande poeta spagnolo mette in luce l'origine dei suoi versi da una musica sorgiva che eleva lodi all'emarginato.
Lorca, l'usignolo della bellezza
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Con questa ricchissima monografia Gabriele Morelli riporta il fuoco dell’attenzione su Federico García Lorca (1898-1936), che in diverse fasi della nostra cultura entrò nella poesia e nel teatro italiani con la forza prorompente della sua musica variatissima (Garcia Lorca, Salerno, pp. 320, € 16).

Nella bibliografia sterminata su Lorca conferiscono a questo libro una preziosa unicità la frequentazione di Morelli con i suoi eredi (la sorella Isabel e Manuel Fernandez-Montesinos García, figlio dell’altra sorella Concha e di Manuel, il cognato fucilato poco prima di lui) e con gli ultimi testimoni: la passione critica che accompagna ogni istante il farsi della poesia nella vita pubblica e privata, nella condizione drammatica dell’omosessualità e in tante zone d’ombra non risolte, che culminano con la morte: la viva descrizione degli ambienti, dall’infanzia di Federico immersa nella natura di Fuente Vaqueros a Granada, Madrid, New York, Cuba, il Sudamerica, la Spagna cupa che lo martirizza.La parola di García Lorca nasce con la musica, una trasmissione materna che include lo zio Baldomero, il maestro Segura, e dal 1919 il grande Manuel de Falla: pianoforte e chitarra classica fusi nella ricerca sul campo di motivi popolari, gitani e moreschi. Ma essi diventano subito un’invenzione assoluta, una cosa nuova, mai conosciuta, su cui fioriscono tutte le sperimentazioni che Lorca prova instancabilmente.

Il poeta va a caccia: caccia notturna in un bosco lontanissimo. Prova «comprensione simpatica dei perseguitati. Del gitano, del negro, dell’ebreo... del moro che tutti noi portiamo dentro». Nel giugno 1936, quasi allo scoppio della guerra civile confessa che in quei momenti tragici l’artista deve «ridere e piangere col suo popolo. ... rinunciare al mazzo di gigli e tuffarsi nel fango fino alla cintola per aiutare quelli che cercano i gigli».Federico coglie come un’ape ora la libertà d’associazioni del surrealismo senza le sue gratuità (dopo il primo Libro de poemas 1921, nel Poema del cante jondo 1921/2-1931, nelle Canciones 1924, nel Romancero gitano 1928).

Ora acuisce e dilata suoni e fantasmagorie dell’America nell’età del jazz, della cultura negra che lo appassiona, e della mostruosità di Wall Street alla vigilia del crollo nel Poeta en Nueva York 1929/30-1940: e che meraviglia la fluente, liberata “Oda a Walt Whitman”. Ora assorbe l’eros di Hafiz incarnato in El Andalus nel Diván del Tamarit (1936). Ora trasforma Shakespeare, Góngora, san Juan de la Cruz e il Cantico nei portentosi Sonetos del amor obscuro che vennero scoperti dopo la morte, editi nel 1984: poesia d’amore di una bellezza quasi inarrivabile.In un testo non bello del 1818, “El canto del miel”, Lorca dichiara l’ascendenza mitica del poeta ape: i Greci chiamano api le Muse.

La sua arnia è una stella casta, pozzo di ambra che alimenta il ritmo delle api. La poesia è il miele, che addensa metafore: parola di Cristo, oro fuso del suo amore, la cui perfezione di nettare è mummia della luce del paradiso: materialità dell’infinito, anima e sangue dolente dei fiori condensata attraverso un altro spirito: canto dell’età dell’oro, liquore divino dell’umiltà, incarnazione dell’armonia, essenza geniale e dorata del lirismo, dolce come il ventre delle donne, gli occhi dei bambini, le ombre della notte, una voce, un giglio: supremo sole che illumina, consola, equivale a tutte le bellezze, al colore, alla luce, ai suoni: liquore divino della speranza dove l’anima e la materia in unità raggiungono equilibrio perfetto come nell’ostia il corpo e la luce di Cristo.

“El canto del miel” esalta la lirica: musica dolcezza che viene dal dolore. Una scelta sacra, sacrificale, per niente di moda oggi.Come espone ampiamente Morelli, intorno a Lorca sin dagli anni Venti e non solo in Spagna, s’irradiano interessi e scambi di un ambiente internazionale con al centro Jiménez, Ortega y Gasset, Unamuno, Valle-Inclán, i Machado. Vi si uniscono i più giovani Salvador Dalí e Luis Buñuel, Jorge Guillén, Rafael Alberti, Pablo Neruda, Vicente Aleixandre, Damaso Alonso, Gerardo Diego, Luis Cernuda. Le arti si fondono con le lettere, il teatro le riassume, e prima l’attività della Barraca con la diffusione dei classici nelle campagne, poi i tour oltreoceano espandono la meteora di Lorca.

D’improvviso, la sua barbara esecuzione da parte di militanti franchisti gettò l’aura del martirio sul fascino che già lo circondava, non solo in chi ne aveva riconosciuto subito il genio mobilissimo e la grazia suprema di grande malinconico. Si riverberava in ogni forma di mitizzazione.Nel 1955 la voce di Federico García Lorca risuonò nelle case italiane attraverso le profonde vibrazioni del Lamento per Ignacio Sanchez Mejias letto da Arnoldo Foà col commento musicale di Mario Gangi per la chitarra di Piero Gosio, che scandiva l’andamento a concerto del poema. Tutti furono conquistati da una poesia nobile e tragica, potente e suasiva, familiare per la sua classicità e insieme esotica, che esaltando la figura di Ignacio non solo torero ma simbolo della cultura spagnola, attraeva verso paesaggi di un comune fondo mediterraneo bruciato da miti oscuri e solari, da tenerezze soavi e profumi arabizzanti, da ferocie sanguinose e da un nero abbagliante. Carlo Bo, che dopo Angiolo Marcori (Poeti nuovi di Spagna, “Rassegna Nazionale”, 1930), Giuseppe Valentini e in seguito Oreste Macrì aveva tradotto Lorca verso la fine degli anni Trenta e nel 1962 ne avrebbe pubblicato tutte le poesie con Guanda, un anno dopo l’edizione di Vittorio Bodini di tutto il teatro per Einaudi, presentava il Lamento come il frutto più maturo, un vero e proprio testamento, “la parte più alta” della poesia di Lorca nel senso dell’elegia.

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