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Uno scatto tratto dal film-concerto “Pink Floyd at Pompeii MCMLXXII” in cui Rogers Waters suona il gong - Nexo
Quando nell’ottobre del 1971 i Pink Floyd decidono di esibirsi nell’anfiteatro romano di Pompei, senza pubblico, nel silenzio ancestrale della città sepolta, stanno compiendo un gesto che è al tempo stesso estetico, filosofico e profetico. Live at Pompeii (che esce poi nel 1972) non è solo un film-concerto: è un crocevia, un bivio nella storia del rock. È lì, tra le rovine millenarie e i vapori del Vesuvio, che il gruppo accetta definitivamente l’abbraccio — ambiguo e promettente — della tecnologia, pur mantenendo viva una domanda etica cruciale: che ruolo dovrà avere l’uomo nell’epoca delle macchine? Infatti, in uno dei dialoghi del film-concerto, David Gilmour sottolinea di come i dispositivi elettronici, come amplificatori e sintetizzatori, da un lato possono aumentare la capacità della musica di arrivare alle persone, al loro inconscio, dall’altro però avvisa di come l’arte tutta non si debba far condizionare nel processo creativo dalla tecnologia. Durante un pranzo Rogers Waters evidenzia tutto il suo anticonformismo, attaccando il “sistema della musica”, di come questo soffochi gli artisti che vengono piegati alle logiche del business. In quelle sessioni, tra riprese sospese e dialoghi semi-sussurrati, emergono quindi riflessioni quasi ontologiche sull’uso degli strumenti elettronici. I sintetizzatori come altri apparecchi non sono solo effetti speciali, ma strumenti di accesso a una dimensione altra, capace di espandere la coscienza. Gilmour, Waters e gli altri si interrogano più volte con lucida preoccupazione: «La tecnologia non deve dominare l’uomo». Una consapevolezza che anticipa temi che solo decenni dopo diventeranno centrali nel dibattito culturale.
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David Gilmour negli studi londinesi di Abbey Road - Nexo
In questo senso, Live at Pompeii è anche un rito di passaggio: da una musica ancora legata al gesto analogico e alla performance collettiva, verso una nuova forma, fluida e riflessiva, in cui il suono è manipolato, dilatato, filtrato. Tutto questo nel film-concerto Gilmour lo dice esplicitamente. Insomma, un laboratorio per ciò che verrà. Infatti, da quelle sessioni emergeranno i primi abbozzi di Dark Side of the Moon, e soprattutto l’intuizione profonda di Wish You Were Here. Entrambi album che portano in sé il germe di ciò che a Pompei ha cominciato a respirare: la tensione tra umano e artificiale, tra assenza e memoria. Wish You Were Here è forse l’album più emotivamente ereditario di “Pompeii”. Lì, la riflessione si fa personale. Il senso di mancanza si incarna nella figura evanescente di Syd Barrett, genio fondatore del gruppo, poi inghiottito dalla propria fragilità psichica. Il suo spettro si aggira tra le tracce, e con esso un senso struggente di colpa e di amore mancato. Barrett, che non appare in Pompeii ma ne è lo spirito assente, rappresenta il primo martire del rock inteso come industria. In lui, la pressione delle major e la standardizzazione dell’espressione artistica diventano insopportabili. I Pink Floyd non lo dimenticano, come si avverte già in Live at Pompeii: lo trasformano in simbolo, in monito. La macchina — intesa come apparato discografico, sociale, culturale — divora ciò che non riesce a comprendere. E Barrett, con la sua visione allucinata e il suo rifiuto delle regole, ne è la vittima sacrificale.
Ecco perché Live at Pompeii è così importante: perché è il punto esatto in cui tutto questo comincia a farsi chiaro. Non è solo un’esibizione, è una soglia. Il rock, fino a quel momento forza espressiva e rivoluzionaria, inizia a interrogarsi sulla propria fine, o trasformazione. La bellezza arcaica di Pompei non è casuale: lì, tra affreschi e cenere, si celebra un rito funebre e al contempo generativo. La musica non si limita più a intrattenere, diventa domanda, visione, consapevolezza. Con Live at Pompeii, i Pink Floyd ci dicono che si può abitare la modernità senza esserne schiavi. Che l’uomo, anche nella sua assenza, può ancora lasciare un’orma. Che la mancanza — se accolta e non rimossa — può diventare linguaggio. Che la macchina, se usata con grazia e coscienza, può restituirci un’eco dell’anima.
Proprio per questo - al cinema e nelle sale IMAX per pochi giorni, da oggi al 30 aprile - Live at Pompeii viene riproposto nella sua nuova veste. In Italia la distribuzione nelle sale è un’esclusiva Nexo Studios, mentre quella a livello internazionale sarà ad appannaggio di Trafalgar Releasing e Sony Music Vision. Non solo, dal 2 maggio uscirà per la prima volta come album live completo, con il titolo Pink Floyd at Pompeii - MCMLXXII (Legacy Recording / Sony Music). Nel tempo, infatti, sono uscite varie registrazioni e pillole dell’iconico concerto, ma mai una versione così completa ufficiale e mai in Dolby Atmos e vinile. Pink Floyd at Pompeii - MCMLXXII sarà disponibile in versione rimasterizzata su CD, Audio Digitale, in Dolby Atmos e in vinile. Rimasterizzato digitalmente in 4K dalla pellicola originale in 35 mm, con audio restaurato e mixato da Steven Wilson, il film-concerto Pink Floyd at Pompeii - MCMLXXII arriverà così sul grande schermo proponendo la versione definitiva di questo pioneristico capolavoro. È stato il primo concerto dal vivo tenutosi a Pompei e contiene i brani fondamentali Echoes, A Saucerful of Secrets, Careful with That Axe Eugene e One of These Days. Il film include inoltre rari filmati dietro le quinte dell’inizio della lavorazione di The Dark Side of the Moon negli Abbey Road Studios. «È un documento raro e unico della band che si esibisce dal vivo nel periodo precedente a “The Dark Side Of The Moon”», ha dichiarato Nick Mason. Nella pellicola c’è anche Richiard Wright, scomparso nel 2008. Il film è stato meticolosamente restaurato, fotogramma per fotogramma, a partire dal negativo originale da 35 mm, scoperto in cinque barattoli etichettati in modo dubbio negli archivi dei Pink Floyd. Questa svolta epocale ha portato alla luce la stessa pellicola che è passata attraverso le cineprese durante quei giorni afosi tra le rovine di Pompei, più di 50 anni fa. Guidato da Lana Topham, direttore del restauro dei Pink Floyd, il team ha avuto il compito di preservare l’integrità e la bellezza dell’immagine originale. Il film è stato scansionato in 4K utilizzando tecniche avanzate per garantire la massima nitidezza dei dettagli. I colori sono stati esaltati e ogni fotogramma è stato meticolosamente rivisto e riparato, mantenendo un aspetto naturale e vivido con aggiustamenti minimi della grana.