venerdì 9 dicembre 2016
Ha ragione lo scrittore russo Nabokov per il quale alla prima lettura l'essenziale sfugge, oppure a tornare sulle stesse pagine se ne altera il gusto e la memoria?
Fa bene rileggere lo stesso libro?
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Ci sono momenti in cui diversi frammenti di informazioni o di opinioni si mescolano e quello che fino ad allora era soltanto una vaga intuizione all’improvviso diventa chiara. Aprendo il nuovo libro dello scrittore olandese Douwe Draaisma intitolato Forgetting (“Dimenticare”), si scopre che la nostra memoria visiva immediata «trattiene gli stimoli per non più di una frazione di secondo». Questo viene ammesso con un certo rammarico, perché in genere siamo indotti «a immaginare la memoria come la capacità di preservare qualcosa, o magari anche tutto, completamente intatto», riflette Draaisma.

Vladimir Nabokov sosteneva che «stranamente, non si può leggere un libro, lo si può soltanto rileggere». Nabokov spiega che «quando leggiamo un libro per la prima volta il processo stesso di spostare faticosamente gli occhi da sinistra a destra, riga dopo riga, pagina dopo pagina, quel complicato lavoro fisico sul libro, il processo stesso di apprendere in termini spaziali e temporali di che cosa si parla, si interpone tra noi e la valutazione artistica». Solo a una terza o quarta lettura, afferma lo scrittore, iniziamo ad avvicinarci al libro con l’atteggiamento che adotteremmo verso un dipinto, a possederlo mentalmente nella sua interezza. Nabokov non parla del dimenticare, ma è chiaro che a questo allude. Lo sforzo fisico di spostare gli occhi avanti e indietro resta identico a ogni lettura del libro – non che si possa dire particolarmente faticoso. Ciò che cambia dalla seconda lettura in poi è che aumenta la nostra capacità di assorbire e mettere in relazione i vari elementi del testo. Ora, conoscendo l’epilogo, possiamo intravederne una prefigurazione già nelle prime pagine.

Citando Flaubert, Nabokov aggiunge: Comme l’on serait savant si l’on connaissait bien seulement cinq ou sìx livres. («Come saremmo saggi se conoscessimo bene soltanto cinque o sei libri»). Sembra, allora, che l’ideale sia arrivare a una conoscenza totale del libro, una consapevolezza totale e simultanea del suo intero contenuto, e una capacità di ricordarlo in toto. Dal momento che un lettore potrà raggiungere una tale padronanza con un numero estremamente limitato di libri, diventa cruciale che siano pochissime le opere degne di tale attenzione. Così siamo spinti a una visione elitista della letteratura in cui la valutazione estetica richiede una conoscenza esaustiva solo dei capolavori.

Inutile dire che un simile approccio è una consolazione per i professori, a cui tocca rileggere sempre gli stessi testi, anno dopo anno. E, naturalmente, è proprio un testo volutamente complesso e difficile ( Ulisse, la Recherche, La montagna incantata, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana) a consentire al professore, che l’ha letto almeno una decina di volte, di mantenere un sicuro vantaggio sui poveri studenti smarriti.

Per contro, la nostra prima reazione alla lettura di un libro è irrilevante, se non nella misura in cui ci fa o non ci fa venire voglia di tornare all’inizio e ricominciare. Ma poiché que- st’approccio presuppone che nessun libro di valore dia il meglio di sé alla prima lettura e che non possiamo sapere cosa potrebbe emergere da letture ulteriori, a decidere se sia il caso di rileggerlo o meno saranno più che altro gli insegnanti o i critici. Insomma, i savi, dall’alto della loro esperienza, ci dicono quali libri dovremmo leggere, anzi, rileggere, perché leggere una volta sola è quasi come non aver letto affatto.

Ma è questo l’atteggiamento ideale con cui avvicinarsi alla letteratura? Ha ragione Nabokov, un libro si può solo rileggere? Che rapporto c’è fra quest’approccio e le nostre abitudini di lettura reali, in particolare nel mondo contemporaneo che offre sempre più libri, ma sempre meno tempo per leggerli?

Torniamo a Douwe Draaisma. Perché definisce la nostra incapacità di rievocare le impressioni sensoriali a distanza di pochi secondi un “dimenticare”? Ciò implicherebbe che abbiamo “posseduto” o almeno avremmo voluto possedere quelle impressioni. L’assunto di base è che la vita ha minor valore, minore dignità, se, per così dire, semplicemente scorre. Eppure anche ora, mentre scriviamo o leggiamo, siamo consapevoli di tutta una serie di impressioni sensoriali. La posizione di fogli, tazze, penne, telefono, libri sul tavolo di vetro del soggiorno; la parete di fronte; il ronzio del frigorifero e una sirena in lontananza. Domani non saremo mai capaci di ricordare neanche una frazione di tutto questo. Eppure, queste percezioni costituiscono parte integrante del piacere di essere dove siamo in questo momento e se non ci fossero la nostra vita sarebbe più povera.

Naturalmente, uno dei motivi per cui non saremo in grado di ricordare tutte le impressioni è che presto saranno sostituite da altre, egualmente vivide, oltre al fatto che dopo aver trascritto qualche dettaglio del nostro qui e ora, qualsiasi ricordo potremo rievocare sarà colorato e in qualche modo falsificato da quel resoconto.

Nel rigettare il mito che sia possibile ricordare tutto, Draaisma ci rammenta che i ricordi, quelli che conserviamo, sono per lo più costruzioni, rimaneggiamenti, semplificazioni, fotografie che sostituiscono i volti e così via; per giunta, non c’è motivo di ipotizzare che l’impressione originaria si possa ritrovare intatta in qualche angolo della nostra testa. Non possediamo il passato, neanche quello di qualche istante fa, e questo non è certo motivo di rimpianto, perché possederlo sarebbe un serio ostacolo alla nostra esperienza del presente. Ma questo ci aiuta forse a fare luce sul problema della lettura? A questo punto dovremmo porci qualche domanda sull’entusiasmo di Nabokov per la rilettura. Si tratta davvero di un accumulo graduale e sempre positivo che accresce il controllo e l’assorbimento di un libro, o è piuttosto un processo precario in cui ogni volta che rinnoviamo il nostro coinvolgimento verso il testo cancelliamo o alteriamo quello passato? Non potremo mai ritrovare, per esempio, l’entusiasmo provato la prima volta che abbiamo letto The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge, il Decamerondi Boccaccio, o Molloy di Beckett. Spesso, rileggendo, ci prende un senso di delusione: Moravia, Calvino, Tabucchi ora non sembrano esaltanti come quando li ho affrontati per la prima volta. Ma perché questo dovrebbe ridurre il piacere provato allora? Perché non dovremmo rallegrarci per un libro che apprezziamo oggi piuttosto che preoccuparci del verdetto di una prossima rilettura? Non si legge per formulare un giudizio definitivo sul testo, ma per appassionarsi a quello che ha da offrirci adesso.

Sappiamo che Nabokov era un collezionista ossessivo di farfalle; doveva inchiodare la più sfuggente delle creature. Molti dei suoi personaggi posseggono le qualità, le perversioni e le insicurezze del collezionista. Humbert Humbert apre la sua narrazione con un tentativo di possedere Lolita nell’atto stesso di pronunciare il suo nome: «Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti». In generale le parole, per vocazione, riorganizzano e fissano l’esperienza perché la si possa comunicare nel tempo e nello spazio. Eppure spesso sembra che la nostra esperienza delle parole, una volta scritte, sia sfuggente e precaria come le nostre impressioni sensoriali. Nessun lettore ha mai davvero il controllo totale di un libro, non facciamoci illusioni; e forse investire tanta energia per arrivare a quel controllo è in sé una forma di impoverimento.

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