venerdì 7 luglio 2023
Per il poeta americano l’«essenziale» è la categoria primaria in virtù della quale ogni dettaglio diventa irrinunciabile. La sua lingua è di abbacinante trasparenza
W.S. Merwin

W.S. Merwin - WikiCommons

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Imprevedibili sono le vie della poesia, anche per quanto riguarda le vicende della traduzione. Nel 2020, quando Louise Glück vinse il Nobel per la Letteratura, furono in molti a denunciare la disattenzione che l’editoria italiana aveva dimostrato verso l’autrice. Che però una manciata di traduzioni l’aveva avuta, sia pure presso sigle tanto minori quanto raffinate. E versioni eccellenti nella nostra lingua erano state approntate per altri maestri della poesia angloamericana contemporanea, primi fra tutti Charles Simic e Mark Strand.

Nulla, invece, era all’epoca disponibile di un gigante come W.S. Merwin (le abbreviazioni stanno per William Stanley), uno dei rari poeti al quale sia toccato il destino di essere prima enfant prodige e infine anziano patriarca. Per tentare una mediazione fra gli opposti si potrebbe ricorrere all’ossimoro sapienziale del puer senex, figura molto cara all’indagine psicoanalitica, rispetto alla quale Merwin opera però un ulteriore scarto nella direzione di una spiritualità perseguita in piena luce e non incalzata tra le penombre dell’inconscio. È il motivo per cui a portare in Italia un’ampia scelta dell’opera di Merwin è oggi Ubiliber, la casa editrice dell’Unione buddhista italiana. Al buddhismo il poeta si era convertito nei primi anni Ottanta, nel periodo in cui si era ormai trasferito alle Hawaii dove aveva sposato Paula Dunaway Schwartz, sua compagna della maturità. Sempre che in una vicenda come quella di Merwin il concetto di maturità possa essere applicato secondo la logica corrente, si capisce.

Nato a New York nel 1927 e morto quasi centenario nel 2019 ad Haiku (l’omonimia con il più classico genere lirico giapponese ha poeticità tutta sua), Merwin esordì giovanissimo sotto il patrocinio di W.H. Auden, fu poeta laureato degli Stati Uniti e vinse per due volte il Pulitzer: la prima con Il trasportatore di scale nel 1971, quando decise polemicamente di donare il denaro del premio al movimento degli obiettori di coscienza per il Vietnam; la seconda con L’ombra di Sirio nel 2008. La sua bibliografia conta circa cinquanta titoli di poesia e una decina di prosa, senza considerare le numerose traduzioni, molte delle quali intraprese grazie all’impulso del suo mentore di gioventù, l’altrimenti inaccessibile Ezra Pound. The Essential W.S. Merwin, vasta antologia allestita da Michael Wiegers, porta la data del 2017 e costituisce la base della meritoria operazione intrapresa da Ubiliber. Da quel libro ne sono usciti due, come per gemmazione.

Dopo l’avanguardia dello scorso anno ( L’essenziale, pagine 184, euro 16,00), arriva ora un secondo e più corposo volume ( L’essenziale II, pagine 268, euro 18,00), che permette di approfondire e meglio circostanziare l’avventura poetica di Merwin. Nel frattempo, c’è stata una staffetta fra traduttrici: a Chandra Candiani, che nel 2022 aveva ulteriormente essenzializzato il suo Merwin, è subentrata Sara Fruner, non meno sensibile nel cogliere le vibrazioni sottilissime dell’originale. Quella di Merwin è una lingua di abbacinante trasparenza, benedetta da una sorta di pronuncia ancestrale, che riconduce ciascuna parola al suo significato originario. È inglese in purezza, certamente, eppure durante la lettura emerge spesso la sensazione che Merwin stia attingendo a una lingua interiore e anteriore, personalissima e insieme universale. La poesia, in fondo, è sempre il tentativo di ritrovare – fosse anche per un istante – la lingua che Adamo parlava in paradiso.

Merwin ha avuto il suo Eden, è vero. Ma la conquista di una dizione esatta e irrefutabile precede di molto l’approdo dell’autore alle Hawaii e la conseguente trasformazione di una piantagione abbandonata in un giardino di palme rare. Il rapporto con la natura e la celebrazione della vita animale sono temi ricorrenti nei suoi versi, ma sarebbe un errore convincersi che questi siano i temi della poesia di Merwin. Ricondotta alla sua autenticità, infatti, la poesia non ha mai un tema. Semmai, è uno sguardo che si posa sulla realtà, trasfigurandola e rivelandone il segreto. Così nelle pagine dell’Essenziale (i libri sono due, ripetiamolo, ma vanno letti come uno solo, anche apprezzando le sottili variazioni nelle voci delle interpreti) può capitare di imbattersi in una satira sul turismo esotico e in riscritture dal mito e dalla Bibbia, in una vertiginosa sintesi della biografia di Arthur Rimbaud e in una memorabile istantanea di amore coniugale, resa con partecipe semplicità da Candiani in Desiderio: « Per favore / ancora un bacio in cucina / prima di spegnere le luci».

Si sarà compreso, a questo punto, come il titolo del duplice volume sia da intendere in controluce. Per Merwin l’«essenziale» è la categoria primaria in virtù della quale ogni dettaglio diventa irrinunciabile. Davanti a un libro come questo, e nell’incontro con un autore di questa importanza, ciascuno è invitato a trovare la sua via di ingresso, che può essere nella complessità strutturale di alcune composizioni oppure nella fulminea concretezza di una singola immagine: « Libro / brucia ciò che non regge la tua luce» (traduzione di Fruner in Messaggero da Aubigné). Volendo, si potrebbe anche partire dal fondo, e cioè da una delle ultime poesie comprese nel secondo volume.

La moglie di Lear proviene da La luna prima del mattino del 2014 e descrive la parte nascosta di una trama notoria, come se un arazzo fosse contemplato dalla parte della tessitura. Mai convocata in scena da Shakespeare, la madre di Goneril e Regan e Cordelia rievoca la nascita delle figlie, racconta di aver visto in loro tenebre e terrore e tenerezza, accusa il re di non aver compreso e perfino Cordelia, la prediletta, di non aver parlato per tempo. Le parole suonano quotidiane e, proprio per questo, di un’assolutezza definitiva. Un’impresa che sembrerebbe impossibile, questa di rinchiudere tutto Re Lear in pochi versi. Merwin lo fa con un’eleganza che lascia ammirati. In poesia, del resto, la vera unità di misura non è l’abilità, ma la grandezza.

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