giovedì 10 febbraio 2022
Dagli archivi militari riemergono le storie di centinaia di uomini in uniforme, uccisi nel corso di quella che fu una tragedia collettiva
Alcuni carabinieri sulle tombe di colleghi uccisi e gettati nelle foibe

Alcuni carabinieri sulle tombe di colleghi uccisi e gettati nelle foibe - Archivio storico dei Carabinieri

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Comèno è un paesino di tremila anime, arroccato sul Carso. Oggi si trova in Slovenia, ma il 9 settembre 1943 era ancora terra italiana. Quel giorno, il maresciallo dei carabinieri Sebastiano Costanzo, comandante della locale stazione dell’Arma, venne catturato dai partigiani titini. Fu legato e portato in giro per il paese, per sottoporlo allo scherno. Poi fu torturato e finito con tre colpi di pistola alla nuca. Il suo cadavere venne gettato in una foiba non lontano dall’abitato. Una sorte toccata pure al maresciallo Torquato Petracchi, che comandava la stazione di Parenzo in Istria: il 3 ottobre, con altri 25 italiani, fu portato a Villa Surani, gli vennero legati i polsi col filo spinato e poi insieme agli altri fu fatto precipitare in una foiba profonda 135 metri. Sono solo due fra le tante vicende ricostruite dal generale di brigata Antonino Neosi, direttore dei Beni storici e documentali dell’Arma dei Carabinieri, che con pazienza e tenacia ha fatto riemergere dagli archivi militari le storie di centinaia di suoi colleghi in uniforme, uccisi nel corso di una tragedia collettiva, quella dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, che viene commemorata ogni 10 febbraio con il Giorno del Ricordo. Gettati nelle cavità carsiche, torturati o uccisi con un proiettile, molti militari italiani pagarono con la vita la scelta di restare a difesa della popolazione.

Gli eccidi avvennero in due fasi: nei 40 giorni seguiti all’armistizio del 1943 quando, ricorda Neosi, «a seguito dello sbandamento dell’esercito italiano e della riorganizzazione del Comando tedesco» la regione della Venezia Giulia «divenne facile preda dei partigiani slavi »; e poi dal 1° maggio al 10 giugno 1945, quando «l’infoibamento raggiunse l’apice».

Dopo il ritiro delle truppe tedesche, Trieste, Gorizia, Zara, Fiume e Pola vennero occupate dalle unità jugoslave. I primi edifici ad essere presi d’assalto furono quelli pubblici, comprese le caserme dell’Arma. E fra i primi a «sparire», ci furono molti carabinieri in servizio presso la Legione di Trieste o i Battaglioni mobilitati nella Venezia Giulia, nell’Istria o in Dalmazia, «rimasti al loro posto – sottolinea Neosi – coscienti che sarebbero stati travolti dalle forze avversarie».

Setacciando registri di servizio e fonti d’archivio, il generale ha ricostruito come nelle stragi siano deceduti almeno «250 carabinieri, anche se la quantificazione delle vittime resta ancora oggi difficile», sia per problemi legati al recupero delle salme, sia per la «la distruzione di gran parte degli archivi municipali e anagrafici», che avrebbero potuto aiutare a «stabilire un ipotetico numero di cittadini risultati all’epoca irreperibili».

Fra le vittime accertate, risultano non solo i carabinieri 'infoibati' ma anche quelli «oggetto di una feroce repressione da parte delle bande slave». Come accadde a tanti civili, molti carabinieri vennero fucilati dopo essere stati sottoposti a processi sommari. Morirono così il sottotenente Angelo Finucci e il maresciallo Francesco Mereu, che comandavano le caserme di Gallignana e di Pedea, assaltate l’11 giugno 1944 da 700 partigiani titini.

Dopo «un processo farsa», ricorda Neosi, vennero fucilati con altri 15 carabinieri e poi inumati nei pressi di Santa Caterina d’Istria. Ad altri toccò una fine peggiore, con violenze e soprusi prima del colpo letale: a Bretto Inferiore,12 carabinieri addetti alla vigilanza di una centrale idroelettrica vennero costretti da miliziani slavi a marciare per ore fino alla Malga Bala dove, la mattina del 25 marzo 1944, furono massacrati. In memoria di quei 12 eroi, e di tutte le altre «vittime con gli alamari », nel 2009 è stata conferita alla bandiera dell’Arma la medaglia d’oro al merito civile, che ricorda il sacrificio di quei militari che, per amor patrio e solidarietà umana, non ebbero paura di fare da ultimo baluardo «contro la barbarie e la ferocia inumana».

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